martedì 9 novembre 2010

LA NOSTRA VITA: RECENSIONE


Con “La nostra vita” il regista Daniele Luchetti porta sul grande schermo una vicenda che racconta come “la vita continui”, nonostante tutti gli inconvenienti che possono accadere alle persone comuni. Il progetto si inscrive nel filone di “Mio fratello è figlio unico” con la famiglia (più o meno disastrata) sempre al centro dell’idea di società di Luchetti, che riesce ad esportare la qualità del buon cinema italiano, quello che oramai sempre più raramente si vede, partecipando al 63esimo Festival di Cannes. La storia è quella di Claudio, interpretato da uno straordinario e particolarmente intenso Elio Germano, che perde la moglie (Isabella Ragonese) in sala parto, ritrovandosi da solo a dovere crescere ben tre figli piccoli. Il giovane operaio edile non è assolutamente pronto ad affrontare tutto quello che la vita ha in serbo per lui, e decide di trovare conforto concentrando le sue sole attenzioni sugli oggetti materiali, per migliorare la vita dei suoi bambini: un modo assolutamente credibile di elaborare un così grave lutto. A essere esaltato in questo film è infatti certamente il nuovo proletariato delle periferie delle grandi città, alla ricerca del benessere da soap opera, ottuso (o almeno così agiscono i personaggi) nell’esasperata ricerca di denaro per saziare i propri appetiti di normalità. Basti pensare che per Claudio la soluzione migliore per aiutare i bambini nella propria crescita è quello di mettersi in un progetto più grande di lui, rischiando di finire seriamente nei guai. I complimenti vanno certamente ad Elio Germano che si candida a tutti gli effetti come nuovo attore di punta del cinema italiano, regalando quella che a tutt’oggi è la sua migliore interpretazione e per cui meriterebbe certamente un degno riconoscimento. I protagonisti del film, almeno fino alla risoluzione finale, non riescono mai a comunicare i propri sentimenti, segnalando un degrado culturale ed emotivo che si caratterizza soprattutto negli straordinari dialoghi, che sono ben scritti anche se emotivamente vuoti, come giustamente devono essere per integrarsi con il contorno in cui si svolge l’azione. La pellicola sempre in bilico riesce a non precipitare nei soliti clichè tanto cari al nostro cinema, facendo scendere qualche lacrimuccia anche ai più scettici e cinici degli spettatori. Che il lavoro di squadra funzioni sempre al cinema lo dimostra proprio questo film, in cui tutti i reparti, fotografia e montaggio in primis, sono coordinati alla perfezione per ottenere infine un ottimo risultato.

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