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martedì 25 giugno 2013

LA QUINTA STAGIONE: RECENSIONE


La quinta stagione, nuovo film della coppia di registi belgi Peter Brosens e Jessica Woodworth arriva in concorso alla 69esima Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia e convince, almeno la stampa italiana ed estera, che ha applaudito, dopo aver visto l’opera. E in questo caso il termine “opera” è più azzeccato che mai e non si tratta solo di un termine per sostituire le parole “film” e “pellicola”. Sì, perché siamo di fronte ad una vera e propria opera d’arte, che coinvolge tutti i sensi dello spettatore, fa riflettere e lascia quel piacevole senso di benessere, per aver appena visto un bellissimo film.

La cinquième saison, film inserito in una trilogia che comprende Khadak e Altiplano, è una pellicola di difficile definizione e si può collocare a metà strada tra il documentario e il video arte, ovvero due campi spesso battuti dalla coppia di registi belgi. Sembra quasi incredibile, ma per ciò che si vede sul grande schermo, siamo di fronte forse ad una vera e propria installazione artistica, nella quale vengono mostrati i vari quadri, che, in questo caso specifico, sono le 4 stagioni.

La storia ha luogo in una piccola comunità agricola della provincia belga e La cinquième saison inizia proprio con un rito propiziatorio, ovvero si celebra la fine dell’inverno e la tanto attesa primavera. Qualcosa però non va perché la pira, che dovrebbe prendere fuoco e per uccidere l’inverno, non si accende. È l’inizio della catastrofe: le mucche diventano sterili, la terra è arida, le api fuggono via. Con questo pretesto i registi cercano di raccontare la loro visione poetica ed onirica del rapporto uomo-natura. Natura che prepotentemente si riprende lo status di vera regina del nostro mondo, contrapponendosi invece all’arroganza dell’uomo. Insomma nemmeno la ragione può aiutare l’essere umano a sopravvivere, quando la Natura decide che per lui non c’è più posto. La Natura non dà più niente all’uomo, che si ritrova così l’animo sterile, svuotato, inaridito, tanto da arrivare a comportarsi nel più efferato dei modi possibili.

domenica 19 maggio 2013

FERRO 3. LA CASA VUOTA: RECENSIONE


Ferro 3. La casa vuota” di Kim Ki-duk è un film che parla d’amore e solitudine e lo fa alla maniera del regista coreano, ovvero attraverso un modo di raccontare che diventa poesia. Poesia visiva! Dopo il coinvolgente “Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera”, Kim Ki-duk torna nella società, spostandosi dalle montagne incantate e silenti, al caos della metropoli moderna. 

Il protagonista del film è Tae-Suk, un giovane che abita nelle case lasciate vuote occasionalmente dai proprietari. Il giovane non vive solamente abusivamente in queste case, ma cerca di migliorare la vita della casa stessa, aggiustando oggetti ad esempio e lasciando sempre tutto in ordine. Quando non ha più niente da fare passa la sua giornata giocando a golf con la mazza numero 3, quella che è conosciuta come “Ferro 3”, la meno utilizzata dai golfisti, che diventa quindi metafora della vita di Tae-Suk, uomo dimenticato dalla società. La svolta è nell’incontro con una ragazza, Sun-hwa, che abbandona il marito che la maltratta per seguire Tae-Suk nel suo girovagare di abitazione in abitazione.

La pellicola vive di lunghi silenzi, così come Kim Ki-duk ha abituato i suoi ammiratori più fedeli, perché a volte le parole, soprattutto nella nostra società, sono superflue, addirittura volgari e svuotate di significato e ciò che il regista compie nella sua opera è far ritornare il cinema alla sua essenza originaria, ovvero ritornare a essere racconto per immagini. Al centro di “Ferro 3. La casa vuota” c’è (e non potrebbe essere altrimenti) il senso di emarginazione dell’uomo moderno, che vive sospeso, alienato e, per il regista, non è importante farci sapere se ciò che vediamo è sogno o realtà

venerdì 1 febbraio 2013

PINOCCHIO - IL FILM DI ENZO D'ALÒ: RECENSIONE


Dalla favola di Pinocchio, il cinema (d’animazione e non) ha attinto da sempre: da Walt Disney nel 1940, passando per la storica serie televisiva Le avventure di Pinocchio, fino alle rivisitazioni in chiave moderna del capolavoro di Carlo Collodi, che, non guasta ricordarlo, è ogni anno uno dei romanzi più letti al mondo. Non stupisce quindi che uno dei disegnatori italiani più attivi, il regista Enzo D’Alò, decida di dare la sua versione della favola, riportando Pinocchio a muoversi ancora una volta sul grande schermo e di nuovo in versione cartone animato.

All’inizio del film l’avvertenza: liberamente ispirato al Pinocchio di Collodi e, effettivamente, la pellicola presentata alla 69esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Settimana della Critica, si discosta qua e là dal romanzo, anche se rimane abbastanza fedele e non si prende le libertà che ad esempio Walt Disney decise di prendersi nella sua versione dell’opera collodiana. Enzo D’Alò punta ad una narrazione semplice con personaggi ben scritti e ben delineati, aiutati nella riuscita del film anche dallo stile inconfondibile dell’autore, che tutti ricordano per La Gabbienella e il Gatto.

A rendere ancora più emozionante il film, ci si mette anche il fatto che si tratta di una delle ultime opere a cui ha lavorato Lucio Dalla, recentemente scomparso. Il cantante bolognese ha infatti prestato la voce ad uno dei personaggi del film, oltre ad aver curato interamente la colonna sonora.

lunedì 14 gennaio 2013

QUALCOSA NELL'ARIA: RECENSIONE


Francia, Parigi, 1970: quante sceneggiature iniziano così? Infinite! Nato nel 1955, il regista Olivier Assayas ha quindi voluto regalare al pubblico la sua visione del fervente clima politico ed artistico di quegli anni, con la pellicola Après Mai,  in italiano Qualcosa nell'aria, presentata al Festival di Venezia 2012 e in uscita nel nostro paese il 17 gennaio 2013. Il film è incentrato sulla figura di un giovane ragazzo, Gilles, aspirante pittore e regista, che cerca di trovare una strada per il suo futuro, diviso tra la lotta politica militante e il suo sogno di essere un’artista. Il ragazzo infatti non ha, come i suoi compagni, la voglia di impegnarsi totalmente nella politica e quindi si tuffa nel mondo dell’arte per cercare di realizzare i suoi sogni.

Inevitabilmente, nonostante sia un’opera di finzione, Après Mai è un film di formazione, parzialmente autobiografico, in cui il regista racconta come un ragazzo qualunque si sia ritrovato a vivere una straordinaria avventura, che lo ha poi portato a realizzare tutto ciò che desiderava, nonostante una nostalgia di fondo, segnata dal ricordo della ragazza scomparsa precocemente. La pellicola insomma ricalca quello che ormai si può considerare un film di genere, dato che il cinema è già saturo di immagini sulle lotte politiche nella Parigi a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Senza troppe pretese, Qualcosa nell'aria è come un diario ritrovato dopo tanti anni, letto solo per ricordare che cosa si è fatto nel difficile passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta. Del resto per tutto il film, c’è solo una domanda a cui il pubblico deve rispondere: seguire i sogni, che portano inevitabilmente l’individuo a vivere un’esistenza isolata, oppure cerca di condividere qualche cosa di più grande insieme ad una comunità? È poi il singolo spettatore che può rispondere a questo quesito di Assayas, decidendo se il protagonista si è o meno comportato correttamente nella sua decisione finale.

Per ciò che concerne il lato filmico in senso stretto, non si ha di fronte un’opera memorabile, è eccessivamente lunga e con dialoghi non troppo interessanti. C’è anche da aggiungere che in molte parti si ricalcano degli stereotipi e nelle situazioni e nella psicologia dei singoli personaggi. Insomma giusto per definirlo con tre semplici parole: tutto già visto!

mercoledì 2 gennaio 2013

THE MASTER: RECENSIONE


PREMESSA: Questa recensione è stata scritta direttamente dal LIDO di Venezia, quindi sono passati un paio di mesi e non ho avuto il tempo di rivedere The Master, anche se dubito che cambierò idea. 

RECENSIONE: In molti avevano puntato tutto su The Master, nuovo lavoro del regista Paul Thomas Anderson, per la vittoria finale del Leone d’Oro a questa 69esima Mostra del Cinema di Venezia. Bastava solo dare uno sguardo al cast per dirlo: Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman e Amy Adams. Eppure c’è qualcosa che non va nella pellicola, tanto da far uscire lo spettatore dalla sala con l’amaro in bocca. In molti aspettavano (inutile negarlo) The Master per rivedere il regista ritornare dietro alla macchina da presa dopo Il Petroliere.

Se però il precedente film del regista trovava la sua forza in uno straordinario inizio e in una cruenta scena finale, con questo lavoro Anderson non riesce a trovare la stessa brillantezza in sceneggiatura, tanto che il film sembra solo un compitino ben svolto. In effetti dal punto di vista della regia, del montaggio, della colonna sonora, della fotografia è tutto ineccepibile; molti problemi invece possono essere riscontrati dal punto di vista della storia, che non ha alcuna forza e non riesce nemmeno a mettere un minimo di interesse allo spettatore. Leggendo la sinossi prima di recarsi al cinema si incorre nel rischio di aspettarsi un film sulle origini di Scientology, la mitica setta a cui appartiene anche Tom Cruise.

Ebbene il personaggio interpretato da Hoffman è effettivamente omonimo del fondatore di Scientology, L. Ron Hubbard, ma la setta non è mai nominata e viene semplicemente chiamata “la causa”. Pur seguendo lo schema de Il Petroliere con due personaggi principali che si confrontano/scontrano l’un l’altro, le vicende appaiono blande, emotivamente poco accattivanti, nonostante si cerchi di parlare di grandi temi come il rifiuto dell’autorità, la voglia di trovare un posto da chiamare casa e l’analisi introspettiva.

Si tratta insomma di uno di quei film che si possono considerare un’occasione mancata. Del resto tanto si poteva dire sul mondo delle nuove religione e poco, anzi pochissimo, si dice di questo mondo in The Master. La pellicola non è eccezionale, non c’è nulla che alla fine rimane dentro, come ad esempio una grande ripresa o un dialogo particolarmente interessante, che molto spesso si possono trovare in pellicole minori di grandi registi. 

Concludo il tutto con la MINIRECENSIONE pubblicata anche sulla pagina facebook Mini Movie Review e sull'account Instagram sempre di Mini Movie Review:

giovedì 4 ottobre 2012

UN GIORNO SPECIALE: RECENSIONE


La conosciamo per le sue storie, per i suoi racconti, per come dipinge alcune figure umane. Francesca Comencini presenta quest'anno a Venezia nella selezione ufficiale in concorso il suo ultimo lavoro dal titolo Un giorno speciale. La storia è quella di un'aspirante attrice che deve andare a ringraziare un onorevole italiano perché potrebbe raccomandarla per un lavoro in televisione. Gina quindi, dal suo quartiere popolare fuori il grande raccordo anulare, si reca con una auto blu, guidata da un giovane autista al suo primo giorno di lavoro, dall'onorevole.

Una serie di eventi però posticipa l'incontro e quindi i due ragazzi si trovano costretti a vivere un giorno speciale insieme: talmente speciale che già dal primo sguardo si capisce che sarà amore a prima vista. Inutile girarci troppo attorno, quello della Comencini è il solito film italiano, come ne sono passati tanti sul grande schermo negli ultimi 20 anni. Una storia che si svolge quasi tutta in una macchina e, che non si capisce come mai, dovrebbe essere di interesse culturale per il ministero italiano, dato che è stato finanziato anche con quei soldi.

Vuole essere una pellicola di critica nei confronti del sistema dello show business, ma la sceneggiatura finisce per concentrarsi solo sulla storia d'amore, con solo qualche occasione in cui si accenna ad una critica velata, basata soprattutto sulla beltà della ragazza. La solita occasione sprecata e non è banale ricordarlo. 

venerdì 14 settembre 2012

PIETA: RECENSIONE


Esci dalla sala e resti lì, senza parole, a cercare qualcosa da dire sul film che hai appena visto. Ecco la sensazione che lascia la nuova pellicola di Kim Ki-Duk, dal titolo Pieta, che ha vinto il Leone d'Oro alla 69esima Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia. Il regista coreano, giunto al suo 18esimo film, così come ci annuncia nei titoli di testa, era atteso al varco dai cinefili di tutto il mondo, dato che le ultime sue prove cinematografiche non erano state all’altezza delle pellicole dell’inizio del Millennio, quelle (soprattutto Primavera, Estate, Autunno, Inverno… E ancora Primavera e Ferro 3) che hanno permesso a Kim Ki-Duk di farsi conoscere da tutto il mondo.

Con Pieta il regista ritorna proprio ai fasti di un tempo, quasi per urlare a tutti quelli che lo hanno criticato negli ultimi anni di essere ritornato, dimostrando, tra l’altro, di essere in splendida forma. Pieta non è un film facile. Pieta è un film dove la violenza regna sovrana. Pieta è il racconto di una società che basa tutto sui soldi, con i protagonisti che si chiedono solo una cosa: “Che cos’è il denaro?”. Pieta è una pellicola dove si ritrova tutto il cinema di Kim Ki-duk in nuce. Pieta è soprattutto un film, che vale la pena di guardare e forse anche di rivedere, per cogliere al meglio tutte le sfumature, le citazioni, i rimandi sparse qua e là dal regista coreano.

Il film racconta la storia di Kang-Do (Lee Jung-Jin), un uomo cinico e disincantato che lavora per uno strozzino. Gang-Do non ha famiglia, né amici e tanto meno scrupoli, soprattutto quando si tratta di reclamare il dovuto presso i debitori. Infatti chi non paga subisce una punizione corporale, in modo tale che lui può riscuotere i soldi dell’assicurazione e far saldare il debito. Un giorno, compare dal nulla una donna misteriosa (Jo Min-Su) che sostiene di essere sua madre. Raccontare altro di Pieta rischierebbe di rovinare la narrazione, dato che tutto è giocato su un ribaltamento della situazione, con un’ultima ora finale degna della suspence del miglior Hitchcock.

Il regista in questo lavoro non ha paura di sporcarsi le mani, anzi ha girato proprio in luoghi dove a regnare è lo squallore, con chiari riferimenti anche al carattere dei suoi personaggi, che non si pongono alcuno scrupolo per raggiungere il loro obiettivo. Emozionante ed intenso, Pieta entra direttamente nell’anima dello spettatore senza nemmeno chiedere il permesso di entrare, soprattutto grazie alla straordinaria interpretazione di Jo Min-Su: da brividi. Un Leone d’Oro, per manifesta superiorità!

lunedì 10 settembre 2012

L'HOMME QUI RIT - RECENSIONE


Per chiudere la 69esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Venezia, Baratta ha scelto il nuovo film di Jean-Pierre Améris dal titolo L’Homme qui rit, tratto dall’omonimo romanzo di Victor Hugo scritto nel 1869. Il film si avvale di un cast di attori francesi eccezionali sui quali capeggia uno straordinario Gérard Depardieu, affiancato da Emmauelle Seigner e Marc-André Grondin.

Il film racconta la storia di Ursus, un uomo di spettacolo, nella sua roulotte raccogliere due orfani persi nella tempesta: Gwynplaine, un ragazzo con il volto segnato da una cicatrice a causa della quale sembra che rida sempre, e Dea, una ragazza cieca. Pochi anni dopo, danno uno spettacolo in cui Gwynplaine è la stella. Ovunque si spostino, la gente vuole vedere il loro spettaocolo, 'L'uomo che ride', e dovunque c'è l'uomo che ride, arriva la folla. Questo successo apre le porte della fama e della ricchezza al giovane e lo allontana dalle sole due persone che lo hanno sempre amato per quello che è: Dea e Ursus. Jean-Pierre Améris porta sul grande schermo un personaggio principale che ricorda molto da vicino un mix tra il Corvo, il Joker e Edward Mani di Forbice; insomma qualche cosa di già visto al cinema, che però buca lo schermo.

Se per il film di apertura infatti si era scelto una storia moderna con The Reluctant Fundamentalist, per la chiusura la mostra si immerge in atmosfere ottocentesche, con una ambientazione che ricorda molto da vicino, considerando anche l’autore che ha scritto il romanzo, le varie trasposizioni cinematografiche de I Miserabili, di cui uscirà a breve una nuova versione diretta da Tom Hooper. Il film di Jean-Pierre Améris è una favola barocca, quasi tutta girata in interni, che si avvale di una sceneggiatura brillante e di una interpretazione all’altezza della struggente storia raccontata da Hugo. Emozionante!

sabato 1 settembre 2012

THE WEIGHT: RECENSIONE


Film difficile, scioccante, e per palati estremamente raffinati, quello passato al Festival di Venezia, dal titolo The Weight del regista coreano Jeon Kyu-hwan e presentato nella sezione Giornate degli autori. Già solo proponendo un po’ di trama si capisce quanto sia difficile il film del regista coreano. Il protagonista è nato con la gobba e abbandonato in un orfanotrofio, Jung è stato adottato da una donna che lo tiene nascosto in una soffitta e lo usa solo come uno schiavo nel suo negozio d'abbigliamento. La matrigna ha anche un figlio con il quale Jung ha un rapporto di odio e amore. Diventato adulto, Jung lavora presso l'obitorio, con il compito di ricomporre i cadaveri. L’uomo deve prendere medicine in dosi massicce per combattere la tubercolosi e l'artrite, mentre cerca di aiutare il fratello che ha deciso di cambiare sesso.

Basta guardare i tre protagonisti per capire che siamo di fronte ad una rivisitazione in chiave moderna ed in chiave orientale di uno dei romanzi più importanti d’Europa, ovvero Notre Dame de Paris di Victor Hugo. Si tratta di un lavoro delicato, dove non c’è bisogno di tante parole, perché la composizione delle singole scene fanno ritornare alla mente le parole che tutti gli appassionati di cinema si ripetono quando parlano di un grande film, ovvero il “racconto-per-immagini”.

La pellicola, in concorso per il Queer Lion, procede lenta con immagini creunte che possono essere e i cadaveri e le scene di sesso, mostrate senza inibizioni e che ci fanno capire come l’idea di intimità orientale sia avulsa dal nostro mondo e dalla nostra forma mentis. Il mostro, il diverso e la crudeltà del giudizio dell’occhio della persone “normali”, ovvero tutti i temi già trattati nel celebre romanzo di Victor Hugo, sono riproposti anche in The Weight, che riesce a coinvolgere ed emozionare lo spettatore che coglie l’inquietudine e l’angoscia dei personaggi, grazie anche agli sguardi penetranti degli attori protagonisti, che non lasciano indifferenti. Anche il tema dei transgender, molto spesso utilizzato al cinema solo per il suo lato “funny”, mentre Jeon Kyu-hwan vuole riportarlo il tutto sul lato umano, riuscendo a mostrare la tragicità di chi non si sente inadeguato ogni singolo istante della sua vita perché vive in prigione. Ed in prigione in effetti vivono tutti i personaggi della storia, che vorrebbero fuggire da loro stessi, ma che non ci riescono, se non nella immobilità della morte, proprio perché liberi finalmente da se stessi.

Certamente non sentirete molto parlare in giro di The Weight, vincitore tra l'altro Queer Lion, ma qualora vi siate imbattuti in questo articolo, il consiglio è quello di cercarlo da qualche parte (STREAMING!!!) e di vederlo.

venerdì 31 agosto 2012

PARADIES GLAUBE ( PARADISE FAITH) – RECENSIONE


Dopo essere andato al Festival di Cannes con Paradies Love, il regista austriaco Ulrich Seidl ha presentato alla 69esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il secondo capitolo della trilogia sulle varie forme dell’amore, dal titolo Paradies Glaude (Paradise Faith). La terza opera, Paradies: Hoffnung (Paradise: Hope) per concludere il cerchio dei tre più importanti festival del mondo, sarà presentata alla prossima Berlinale (7 - 17 febbraio 2013). 

In questo secondo episodio il regista si concentra sull’amore/ossessione di una donna nei confronti della Chiesa Cattolica e dei suoi principi, seguiti con persistente fermezza. Anna Maria, tecnico radiologo, segue tutte le regole della religione cattolica con talmente tanta convinzione che si punisce ogni sera frustandosi per tutti i peccati davanti al crocifisso della sua camera da letto. La donna è totalmente presa da Gesù Cristo, il suo unico amore, tanto da volerlo far conoscere a tutto il mondo, andando di casa in casa con una statua della Madonna, nei momenti liberi dal lavoro, per cercare di convertire gli “infedeli”, ovvero gli immigrati che si sono trasferiti nella ormai ex cattolica Austria.

Paradies Glaube, nonostante si concentri su temi che possiamo considerare divini, dato che si parla di religione e spiritualità, rapporto tra le religioni e modo di vivere le religioni, rimane sempre legato ad un tema caro al regista: ovvero l’ossessione per il corpo. Certo è che ancora una volta Seidl non si concentra sui corpi perfetti dell’alta moda, ma porta sul grande schermo dei nudi sgraziati, brutti da vedere, quasi sempre ammalati e mai in piena salute. Sono corpi enormi, quasi mostruosi, che vogliono ancora di più riportare la narrazione solo a livello terreno, nonostante la protagonista sia letteralmente assillata dal cattolicesimo, tanto da arrivare a fare l’amore con il suo Gesù. Amore e sesso sono altri due ingredienti fondamentali del film; del resto la telecamera di Seidl riprende tutto senza inibizioni o censure, quindi non stupisce  nemmeno più di tanto un’orgia all’aria aperta a cui assiste l’integerrima Anna Maria.

L'opera però non convince in pieno, almeno rispetto al precedente lavoro. Quasi si potrebbe definire una pellicola sottotono, che stenta a decollare e quando lo fa per arrivare alla risoluzione sembra che ci si arrivi quasi troppo velocemente, senza che ci sia un reale motivo per cui il personaggio di Anna Maria alla fine si comporta in quel determinato modo. Pare incredibile, ma un film lento e di quasi due ore, forse avrebbe avuto bisogno di una scena in più per giustificare quella conclusione. Comunque rimane un lavoro interessante, che certamente convincerà i fan del regista, i quali ritroveranno anche in questo film i topoi della sua filmografia, mentre potrebbe non interessare a chi non ha mai visto nulla del regista austriaco.  

mercoledì 1 agosto 2012

TERRAFERMA: RECENSIONE


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Emanuele Crialese non è un regista che realizza molti film. Dal 1997, anno di “Once We Were Strangers”, al 2011, anno di “Terraferma”, il regista ha realizzato solo altri due film (“Respiro”, “Nuovo Mondo”). Esagerando, potremmo paragonarlo a due altri grandi registi, Terrence Malick e Quentin Tarantino (nonostante poetiche molto lontane le une dalle altre), cioè paragonarlo a quei registi che si mettono dietro la macchina da presa solo quando sono sicuri di poter portare sul grande schermo un progetto di ottima fattura. E con “Terraferma”, Crialese si conferma uno dei pochi registi italiani a sapere scandagliare l’animo della nostra società, con storie e personaggi che hanno una valenza universale; un po’ come fecero a loro tempo i neorealsti. Dopo essersi confrontato con il passato (anni ’70 e inizio Novecento), il lavoro, presentato stamattina in concorso al Festival del cinema di Venezia 2011, è ambientato ai nostri giorni e mette in scena una storia scomoda, politicamente parlando, per il nostro Paese: la drammatica realtà degli sbarchi dei clandestini sulle isolette del Mediterraneo e con gli abitanti di queste terre, così reitti nei confronti della “terra ferma”, impersonificata dalla autorità militare arrivata solo per rovinare le cose. Del resto l’unica legge che esiste in questi luoghi è quella del mare, che gli umili pescatori non possono che rispettare, agendo al di là di cioè che viene imposto dai palazzi romani.

Ancora una volta ritorna nel cinema di Crialese il mare, visto da chi parte come luogo di speranza, ma che a volte, troppo spesso negli ultimi anni, si trasforma in un luogo di morte. Il regista racconta con sguardo appassionato una storia di scelte: chi parte, chi resta. Racconta un mondo fatto di veri rapporti umani: famiglia di sangue o amicizie per la pelle. Il mondo di Terraferma è speranzoso e non si ferma davanti a niente, come un urlo disperato di chi non sa nuotare e si trova tra le onde, non sa cosa fare, ma non si dà per vinto.

Alla realtà banale del turista, che vuole prendere il sole in barca, esiste la realtà di chi la barca deve utilizzare per sopravvivere: pescatore o clandestino, che sia. In un perfetto contrappasso allegorico, si rincorrono queste due realtà che co-esistono in un medesimo ristretto angolo sperduto del mondo.

Questo film inoltre dà speranza anche a tutto il cinema italiano. Infatti, vedendo questi buoni progetti si ha l’illusione che anche nel nostro Paese si possano realizzare pellicole impegnate, che non cedano il passo all’imbecillità spicciola alla ricerca della comicità a tutti i costi, ma che con arguzia portino tutti a riflettere sulle drammatiche condizioni di alcune realtà che troppo spesso tutti tendiamo a dimenticare perché fin troppo scomode. 

RUGGINE: RECENSIONE

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Forse dobbiamo farcene tutti una ragione: in Italia non sappiamo più affrontare (al cinema) il drammatico. Non riusciamo più a realizzare, produrre, recitare un cinema che sia diverso da tutte le sfaccettature della commedia. Ormai da anni l’industria della celluloide del made in Italy riesce a propinare agli spettatori solo qualche divertente filmetto da riderci su, mentre per quanto riguarda gli altri registi stilistici è “arrugginita”. Quando poi qualcuno cerca di uscire da questo schema per proporre qualcosa di nuovo, un film drammatico ad esempio, ci troviamo di fronte, a malincuore, a dover scrivere di un risultato alquanto deludente. È il caso di “Ruggine” di Daniele Gaglione, presentato alla Mostra del cinema di Venezia 2011 nella sezione “Giornate degli Autori”. La pellicola, nonostante la presenza di tre dei migliori attori italiani sulla piazza (Filippo Timi, Valeria Solarino, Stefano Accorsi) e nonostante gli eventi drammatici narrati, non decolla mai e lo spettatore non trova la giusta empatia con i diversi personaggi, rischiando più volte in sala di annoiarsi. La scelta (opinabile) fatta a livello di sceneggiatura è quella di raccontare la storia degli stessi protagonisti su due livelli temporali diversi, mostrando chi erano i bambini e che cosa sono diventati dopo una serie di eventi tragici, in questo caso la pedofilia. Certo è che il pathos del racconto e le scene che dovrebbero testimoniare la violenza di un pedofilo sono ogni volta strozzate, per mostrare la nuova realtà dei personaggi, che potrebbe anche essere omessa ai fini dell’economicità della storia; certo questo avrebbe voluto significare rinunciare ai tre attori sopra citati e quindi anche ad un buon trasporto di pubblico in sala.

4:44 LAST DAY ON EARTH: RECENSIONE


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Arriva in concorso in Laguna Abel Ferrara che ha presentato alla mostra del cinema di Venezia il suo ultimo film “4:44 Last Day on Earth”. Come si può facilmente intuire dal titolo, il film racconta le ultime ore della Terra, perché proprio alle 4:44 (ora locale di N.Y. City) di un fatidico giorno, ogni essere umano dovrà confrontarsi con la certezza che domani non ci sarà un altro giorno, giusto per citare la più celebre delle frasi cinematografiche. 

Anche con questo soggetto il regista, qui nelle vesti anche di sceneggiatore, può confrontarsi con il genere da lui più amato il noir, questa volta ancora più a tinte fosche. Come in tutti film di Ferrara infatti anche qui seguiamo un uomo, interpretato da Willem Dafoe, che vorrebbe redimersi, ma non ha più il tempo di farlo. Attraverso lui osserviamo il modo in cui si comportano tutti gli strati sociali sapendo che la fine è prossima. Dunque ritornano gli alcolizzati, i drogati, figure losche, e la città cupa e violenta, fedele compagna del regista in tutte le sue pellicole. Ma se negli altri suoi film gli emarginati trovano sempre per strada una speranza di redenzione, questa volta no! Questa volta l’intera umanità, a causa della sua stessa negligenza, del poco amore maturato nel corso dei millenni per madre Terra, si estinguerà, senza possibilità di salvezza per nessuno. 

"4:44 Last Day on Earth” non è un film facile; lo si potrebbe definire autoriale ed intimistico. Lo si può considera anche il testamento (prematuro) di un regista, che non salva e non ha pietà per niente e per nessuno. 

CARNAGE: RECENSIONE

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Roman Polanski non è in quel di Venezia, ma il suo ultimo film è finora uno dei migliori lavori visti qui in Laguna e, esagerando, è il migliore per quanto riguarda i film in concorso, ma siamo ancora all’inizio del Festial. Due coppie della borghesia americana si incontrano per discutere di una banale lite tra i loro figli undicenni. Questa è in breve la trama del film che serve da pretesto a “Carnage” per mostrare fin dove si spingono le ipocrisie ed il perbenismo borghese e quanto sia semplice abbattere questo muro di menzogne. 

Tratto dalla pièce teatrale di Yasmina Reza, Polanski si trova decisamente a proprio agio nel portare sul grande schermo una storia ambientata in un unico luogo, come già aveva fatto in “Rosemary’s baby”. La claustrofobia dell’unico set è l’ allegoria perfetta per scandagliare a fondo l’anima dei quattro protagonisti. Il film è quasi tutto fatto dalla splendida sceneggiatura: tanti dialoghi, a tratti surreali, che riescono a mettere i luce i caratteri dei personaggi, regalando allo spettatore spunti di riflessione e ironiche risate. Si prova quasi il sentimento di trovarsi di fronte ad una commedia del teatro dell’assurdo o di fronte ad un film di Bunuel, soprattutto per l’impossibilità dei protagonisti di poter lasciare alle proprie spalle quell’appartamento, come se ci fosse una forza oscura che li tenga obbligatoriamente insieme, nonostante la poca “simpatia” l’uno dell’altro. 

Niente da dir sulla bravura degli attori: del resto per realizzare una pellicola di circa 80 minuti, dove non succede quasi nulla, è necessario poter contare su di un cast d’eccezione: Kate Winslet, Jodie Foster, Christopher Waltz e John C. Reilly, tutti e quattro papabili per la vittoria della coppa Volpi. Un film godibile, con un finale anche fin troppo speranzoso sulle sorti del mondo. 

HAHITHALFUT: RECENSIONE

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Il Medio Oriente è una fabbrica in fermento, che propone da decenni, nonostante le ristrettezze dovute alle precarie condizioni politiche, delle pellicole sempre interessanti, intelligenti e gradevoli. Non è da meno lo straniante “Hahithalfut (The Exchange)” di Eran Kolirin, opera seconda del regista, presentata in concorso al festival del cinema di Venezia 2011. La prima impressione che si ha, alla fine della visione, è quella di essere dentro quel filone, portato avanti soprattutto dal regista Elia Suleiman, in cui il protagonista è assolutamente inerte e silenzioso, che ha cambiamenti impercettibili, ma radicali. La storia di Kolirin è molto semplice e raccontata con grande astuzia ironica. Un giovane uomo sposato, con un buon lavoro all’università ed una vita assolutamente normale, ritorna un giorno a casa e, guardando la sua vita dall’esterno, non si riconosce più in quello che è. Interpretato magistralmente da Rotem Keinan, il protagonista vive una discesa agli inferi che sfocia a poco a poco nella follia, attraverso un’amicizia particolare con un vicino di casa.  Il film è una allegoria della realtà contemporanea, che si concretizza nel lavoro di Kolirin attraverso la non-azione, con l’impossibilità di prendere una decisione, con la consapevolezza di non saper più essere felici nemmeno per le piccole gioie della vita. “Hahithalfut” è un buon lavoro, da sconsigliare a tutti quelli che amano il cinema d’azione, ma che sarà apprezzato dai veri appassionati di cinema. 

HIMIZU: RECENSIONE

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Sul terremoto dell’undici marzo scorso in Giappone dal punto di vista della cronaca giornalistica si è detto di tutto, quello che ancora mancava era l’interpretazione poetica, cinematograficamente parlando, della tragedia che ha sconvolto il paese del Sol Levante. Presentato in concorso alla 68esima Mostra Internazionale del Film di Venezia, “Himizu” dell’onirico regista Sion Sono racconta proprio le vicende che stanno vivendo le persone che in quel drammatico giorno hanno perso ogni cosa: casa, lavoro, amici, familiari, amore… Ovviamente, il regista affronta il tema in maniera conforme alla sua idea di cinema, mostrando personaggi eccessivi: troppo silenziosi o troppo isterici, troppo altruisti o troppo egoisti. 

Del resto Sono è famoso al grande pubblico per il film-scandalo Suicide Club del 2002 ed anche con questo ultimo lavoro il regista tende a spiazzare il suo spettatore: momenti tristi e carichi di angoscia, presto sostituiti dall’assurdità di situazioni grottesche ed oniriche. Il protagonista di “Himizu” è un giovane quattordicenne, Sumida, che ha solo un sogno quello di essere un adulto rispettabile. Come la piccola talpa dal nome “himizu”, Sumida vorrebbe vivere tranquillo, nascosto agli occhi degli altri, perché non avendo sogni ambiziosi, ha solo il desiderio di avere una vita normale, venendo da una realtà tutt’altro che tranquilla con un padre ubriacone e violento e la madre che lo abbandona per fuggire con il suo nuovo amore. Attorno al ragazzo, che vive noleggiando barche su un fiume, si muovono dei personaggi improbabili, folli, disperati, emarginati in una società che cerca di ritrovare a poco a poco la normalità dopo la tragedia. La pellicola è una metafora della fragilità della condizione umana e della disperata ricerca di rialzarsi, dopo che le circostante hanno messo K.O. ogni speranza per un futuro migliore. Nell’onirico universo di Sion Sono i personaggi sono tutti instabili e destabilizzanti, figure allegoriche che portano dentro di loro una carica di sofferenza talmente grande che è davvero impossibile restare indifferenti. Quello che inoltre sconvolge, tralasciando l’analisi vera e propria del film, è il fatto che la pellicola arriva al Lido di Venezia dopo appena 5 mesi dalla sciagura, facendo vedere la forza di un intera nazione che nonostante i problemi riesce sempre a continuare a sopravvivere, puntando le proprie speranze sulle nuove generazioni, con un senso filosofico del concetto di collettività veramente encomiabile.

KILLER JOE: RECENSIONE

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Ci sono film che basta vederli una volta per capire che hanno la forza per diventare dei cult-movie, anche se ancora recenti e da metabolizzare per gli spettatori di tutto il mondo. Questo è il caso di “Killer Joe” ultimo lavoro di William Friedkin, presentato in concorso alla 68esima edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Basta infatti assistere alle prime scene per capire che si ha di fronte un piccolo capolavoro di cinema, che farà letteralmente impazzire i fan del genere splatter, anche se poi di sangue ce n’è davvero poco. Il film racconta la storia di Chris e del suo folle piano per racimolare in fretta seimila dollari, uccidendo la madre e godendo della sua polizza sulla vita. L’odio per la madre è giustificato perché il giovane spacciatore si trova nei guai proprio perché la donna gli ha sottratto la scorta di droga, che avrebbe fruttato seimila dollari. D’accordo con il padre e la sorella Dottie, beneficiaria dell’assicurazione, il ragazzo assolve un killer, il detective Joe Cooper, per assolvere al compito. 

Siamo di fronte ad una narrazione delirante che si accompagna a scene che di per sé valgono il pagamento del biglietto del cinema. Ci sono alcuni momenti durante la pellicola di cui sicuramente si parlerà (tra i cinefili) per molto tempo, al pari delle scene create dai film di Tarantino o dei fratelli Coen a cui Friedkin guarda, senza nemmeno nasconderlo troppo. Il successo del film arriva anche grazie all’ottima scelta del cast (Thomas Haden Church, Emile Hirsch, Matthew McConaughey, Juno Temple, Gina Gershon) e all’ottima regia che non si perde mai nel caos delirante della storia, riuscendo sempre a mantenere le redini del discorso. La pellicola è grottesca, divertente, insomma da non perdere!

LA DÉSINTEGRATION: RECENSIONE


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I francesi, più di altre nazioni, sentono il bisogno di affrontare il problema del razzismo e dell’integrazione, soprattutto quando si parla di immigrati di seconda generazione di origine che musulmana. Ecco che, con tono piuttosto greve, il regista Philippe Faucon racconta la sua (dis)integrazione e i problemi di tre giovani ventenni, che, frustati da una società che non rispetta i valori su cui è fondata (ricordate Liberté, Égalité, Fraternità?), decidono di rivolgere tutte le loro attenzioni alla “guerra santa” contro gli infedeli.  

Il film risente infatti delle drammatiche rivolte delle Banlieue che in questi anni hanno sconvolt.o le periferie della Francia. Siamo molto lontani dal black humor di“Four Lions, la divertente commedia inglese che è riuscita nel difficilissimo intento di far ridere anche lo spettatore più esigente del drammatico fenomeno del terrorismo e dell’integralismo religioso. Il lavoro di Faucon è altro. Concentra il suo sguardo sulla drammaticità della situazione, criticando fortemente la società che, da un lato proprina ai giovani l’ideale di una integrazione totale, ma dall’altro agisce con un razzismo silenzioso. Dunque dalla frustrazione nasce la voglia in Ali, Nasser e Hamza, i tre protagonisti, di cambiare, per questo si lasciano suggestionare da Djamel, trasformandolo nella loro guida spirituale. La pellicola è poco politica e a dimensione domestica, anche perché è ambientata nei quartieri poveri di Lille, dove la speranza e/o le possibilità di riscatto per questi giovani sono pari o poco superiori allo zero. Di materiale per realizzare un ottimo film ce n’era, purtroppo è sempre difficile confrontarsi con la religione. L’opera è a tratti troppo lenta e a tratti accelerata e non riesce a trovare un giusto equilibrio. Nonostante sia pressoché accettabile dal punto di vista della regia, sulla sceneggiatura si possono avanzare diverse remore. Un buon lavoro, dunque, ma che non rimarrà negli Annales della storia del cinema. 

PRÉSUMÉ COUPABLE: RECENSIONE

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Quando si pensa alla Francia e agli scandali giudiziari, la prima cosa che viene in mente è il celeberrimo Affaire Dreyfus e all’articolo di Zola, il glorioso “J’accuse”. Tutto questo non c’entra nulla con il film “Présumé coupable”, anche se dai più questo caso giudiziario, che ha sconvolto il paese d’oltralpe all’inizio degli anni 2000, è stato paragonato all’illustre predecessore ottocentesco. Con questo film, presentato al Festival di Venezia 2011 nella sezione “Giornate degli Autori”, Vincent Garenq porta sul grande schermo la vicenda di Alain Marécaux e sua moglie Edith, accusati ingiustamente di aver compiutio abusi sui minori. 

La pellicola è un pugno nello stomaco, dato che viene messo a nudo con occhio realista il corrotto sistema giudiziario e la ottusaggine di certi comportamenti troppo ligi alla legge. La forza principale del film è proprio il fatto di essere una storia reale, anche perché il materiale per realizzare “Prèsumé coupable” è tratto dai diari che lo stesso Marécauz ha scritto durante i quasi tre anni di ingiusta prigionia. Da una situazione di pace familiare, una vita perfetta, la narrazione procede veloce a descrivere la discesa all’inferi di un uomo che lotta fino alla fine per ribadire la propria innocente e vincere contro tutto e tutti. Messo in croce da politica, stampa e giustizia, alla fine l’uomo avrà la sua vendetta, che si concretizza nel ritorno alla normalità. Il genere carceraio in questi ultimi anni ha ritrovato nuova forza, soprattutto in Europa. In fin dei conti anche il lavoro di Garenq si può inscrivere in questa tipologia di narrazione, anche se la crudezza delle immagini di “Cella 211” o de “Il profeta” è attenuata dalle fasi del processo e dai vari interrogatori, alcuni al limite del comico per l’assurdità di come sono stati condotti da pubblici ministeri incompetenti, subiti dall’uomo. Difficilmente questa pellicola vedrò la luce sul grande schermo in Italia, il che è davvero un peccato (streaming!) perché si tratta di un lavoro di buona fattura.

A SIMPLE LIFE: RECENSIONE

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Non c’è bisogno di effetti speciali o di chissà quale grande concept per realizzare un buon film: basta una storia semplice, dei personaggi ben scritti, una regia pacata ed il gioco è fatto. “Tao Jie (A simple life) è proprio una pellicola del genere, una pellicola che si potrebbe definire “educata”, nel senso che riesce ad imporsi all’attenzione dell’interlocutore in maniera quieta, senza alzare la voce, senza dover strafare, senza dover indossare inutile bigiotteria per abbellirsi. 

La regista cinese Ann Hui si ispira a fatti realmente accaduti per raccontare il rapporto di amicizia tra un produttore cinematografico sulla cinquantina (Andy Lau) e la domestica Ah Tao, che ha servito ben quattro generazioni della sua famiglia. Il film ha come tema centrale la famiglia, che ancora una volta è tale pur non essendoci un vero e proprio legame di sangue. I due protagonisti infatti sono inseparabili e hanno un rapporto quasi morboso, l’uno che aiuta l’altro a vivere e sopravvivere nella società moderna. La donna non è la madre, ma con il suo amore ha cresciuto questo ragazzo, che le dimostra la sua gratitudine proprio nel momento del bisogno, cioè quando la donna, a causa di un infarto, dovrà abbandonare il suo lavoro da governante per andare in una casa per anziani. In fin dei conti, “A simple life” è uno di quei film dove non accade nulla: nessun colpo di scena stupefacente. Tutto è molto lineare ed ordinato e la vera forza della pellicola sono i personaggi: talmente ben caratterizzati da far scorrere veloce i 117 minuti di frame by frame. 

C’è da dire che intelligentemente la regista ha affidato ad Andy Lau, uno dei migliori attori esistenti, il ruolo di protagonista, che veste perfettamente i panni del ragazzino diventato uomo, che rispetta e ama questa donna più di sua madre, con la quale non ha alcun tipo di rapporto. Il cinema cinese è un’industria veramente viva, che regala al mondo prodotti sempre di buona fattura e non è un caso che, negli ultimi anni, anche i distributori italiani se ne siano accorti (vedi l’uscita in sala in queste settimane di “Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma”, sempre con Andy Lau). C’è da sperare che anche questo lavoro arrivi presto nelle nostre sale, perché ne vale davvero la pena: soprattutto nei momenti meta-cinematografici, in cui la regista prende bonariamente in giro tutta l’industria del cinema dai produttori agli spettatori. Infine una curiosità sulla pellicola? La partecipazione del regista Tsui Hark, che interpreta se stesso. 

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