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mercoledì 1 agosto 2012

HUGO CABRET: RECENSIONE


Postato su Film4Life...

Il cinema delle origini e il cinema degli effetti speciali tutto mescolato insieme in una dolce ubriacatura di settima arte: ecco che cosa è “Hugo Cabret” ed ecco quello che ci regala Martin Scorsese nel suo primo film in 3D, fresco di 11 nomination all’Oscar 2012. “Hugo Cabret” è una poesia, una dichiarazione d’amore di un regista che ama il cinema e che ha deciso di omaggiarlo, portando sul grande schermo, per la prima volta nella sua carriera, una favola, quella di un bambino, che abita nella Parigi degli anni ’30, che ama aggiustare le cose e che vive nella torre dell’orologio della stazione della ville lumière.

Con il pretesto di raccontare la storia un ragazzino, Martin Scorsese ci accompagna in una esperienza straordinaria e che forse in pochi fino ad oggi credevano possibile: vedere i film di George Mèlies, un pioniere del cinema, l’uomo che si è inventato l’ellissi cinematografica, l’uomo che ha per primo capito che il film è un sogno, in tre dimensioni. Ci voleva coraggio per raccontare al cinema di George Mèlies, eppure la delicatezza con cui Martin Scorsese affronta l’argomento, coadiuvato dall’ottima sceneggiatura di J. Logan, tratta dal romanzo “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret” di Selznick Brian, ci fa riscoprire quanto deve essere stato bello inventare un nuovo modo di comunicare, quando i meccanismi del cinema erano sconosciuto e lo spettatore nel buio della sala era convinto di assistere ad una “magia”.

La narrazione del film è debole ed in effetti chi cerca una storia ben strutturata non la troverà in “Hugo Cabret” però nei momenti in cui il cinema moderno si incontra con il cinema del passato, ci si trova di fronte alla quintessenza della settima arte e si capisce perché, nonostante il tempo passi per tutti, ogni giorno c’è qualcuno in una parte qualsiasi del mondo che si sveglia la mattina e pensa: “Oggi ho voglia di magie! Oggi ho voglia di cinema”. Un film da vedere e rivedere, di cui gli amanti del cinema non potranno fare a meno. 

lunedì 11 aprile 2011

AS TEARS GO BY: RECENSIONE

Postato anche su Film4Life...

Anche i grandi registi hanno dovuto affrontare l’ostacolo dell’opera prima. Wong Kar-wai nell’anno 1988 approda al cinema con “As Tears Go By”, mostrando al mondo il suo talento. Si presenta così, con un’opera che risente della new wave orientale, uno dei registi che hanno rinnovato il cinema cinese. Wong Kar-wai si dedica sin dal suo primo lungometraggio, alla sperimentazione e all’innovazione del linguaggio cinematografico, pur mantenendo sempre nelle sue opere quel distinguibile taglio classico cinese. 

“As Tears Go By”è un racconto appassionato sui bassi-fondi di Hong Kong degli anni ’80, dove si svolge la storia di Ah Wah, un “Big Brother”, interpretato da Andy Lau, che deve difendere suo fratello (Jacky Cheung), il quale non sa tenersi lontano dai guai. Ah Wah non desidera salire la scala gerarchica della malavita organizzata e quando incontra la donna della sua vita, sua cugina, decide che è il momento di cambiare. 

La trama ricalca in toto, come si può ben capire, i cliclè e gli stereotipi del gangster movie. L’opera prima del regista cinese è però un mix di generi, dato che ha il pregio di mescolare il cinema popolare di Hong Kong, con le più moderne opere americane. Del resto è impossibile non considerarlo una sorta di remake con gli occhi a mandorla del capolavoro di Martin Scorsese, “Mean Streets”, anche se, giustamente, manca in “As Tears Go By” quel senso di colpa cristiano che pervade la pellicola di Scorsese. 

Eppure, nonostante il film non sia il capolavoro di Wong Kar-wai (quelli arriveranno molti anni dopo), sono già presenti in piccolo tutte le caratteristiche del suo cinema maturo, quelle che ad inizio millennio lo consacreranno come uno degli autori del nostro tempo. Già nel modo di raccontare la storia si capiscono le peculiarità del regista. I personaggi sono al centro dell’universo, mentre la vicenda è solo un pretesto per entrare in contatto con l’animo e i sentimenti universali dell’umanità. Del resto, nel cinema di Wong Kar-wai tutto è assoggettato al Fato a cui, prima o poi, bisogna saldare il conto; dunque i protagonisti non scelgono come agire, ma sono quasi costretti a comportarsi in un determinato modo. 

Tra le caratteristiche di questo film c’è l’esperimento di proporre il videoclip di MTV, nato proprio negli anni ’80, al cinema, accentuando le luci al neon e i rallenty, che poi il regista riprenderà con più effetto nei due film che seguiranno (“Days of Being Wild” e “Hong Kong Express”). È però nelle inquadrature dei particolari, degli sguardi, nei movimenti lenti e sempre delicati delle donne, che Wong Kar-wai si fa riconoscere anche in questo primo lavoro, in cui il genio è ancora grezzo, e la poetica è ancora centellinata. 

Un altro tratto distintivo del cinema del cineasta è la scelta della colonna sonora. Anche in questo caso il richiamo alla lontana America è rievocato attraverso una cover di “Take My Breath Away”, con Andy Lau ad interpretare un moderno “Top Gun” cinese. Il risultato infine è un lavoro che racconta in modo ironico, ma assolutamente lirico, le imperfezioni e le brutture della società.


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