Visualizzazione post con etichetta PENELOPE CRUZ. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta PENELOPE CRUZ. Mostra tutti i post

venerdì 25 marzo 2011

VOLVER: RECENSIONE

Postato anche su Voto10... 

Pedro Almodovar ritorna, dopo “La Mala Education”, a guardare al mondo femminile. “Volver” è infatti una pellicola tutta rosa, in cui le donne sono raccontate dal regista in tutte le loro sfumate: da fragili a forti, da amanti a vere mater familias. Il racconto parte dalle suggestioni di Almodovar della sua infanzia, quando poco più che bambino ammirava a La Mancha (cittadina in cui sono girate anche parecchie scene) la vita di sua madre e delle sorelle, oltre che al mondo, sempre fatto dalle signore, del cortile di casa. Il film però non racconta solo questo universo infantile, ma si snoda lungo un arco di tre generazioni. 

Raimunda (Penelope Cruz) è sposata con un operaio disoccupato e con una figlia adolescente, mentre sua sorella Sole, timida e paurosa fa la parrucchiera. Le due donne hanno perso la madre in un incendio molto tempo prima, e questo fatto le ha segnate per la vita. Una svolta drammatica poi porterà le protagoniste a confrontarsi e ad aiutarsi a vicenda. Il film è un grande affresco della solidarietà femminile, in cui spicca la figura della madre: un tema caro ad Almodovar, che ricorda, per come viene trattato in “Volver”, le pellicole di Pasolini. 

La bravura del regista spagnolo supplice alle pecche della storia, soprattutto grazie ad una Penelope Cruz particolarmente ispirata ed intesa, tanto da ricordare (vagamente) la nostra Anna Magnani, e la grande Carmen Maura, che ritorna con quest’opera a lavorare con Almodovar. Nonostante il cast eccezionale, la storia non coinvolge appieno , forse per i troppi passaggi inverosimili e fin troppo fantasiosi.
Molto meglio de “La Mala Educacion” (forse il punto più basso della filmografia del regista), “Volver” ci ricorda che Almodovar sa raccontare le storie e che vale sempre la pena rivedere le sue prime grandiose pellicole.

martedì 9 novembre 2010

MANOLETE: RECENSIONE

Vamos a matar… el cine! Difficile, difficilissimo parlare di “Manolete”, il nuovo film di Menno Meyjes, con una coppia di premi Oscar scintillanti formata da Penélope Cruz e Adrien Brody. Ci sono voluti tre anni perché qualcuno (in questo specifico caso la Eagle Pictures) si decidesse, e dopo aver visto il film, avesse il coraggio di portare nelle nostre sale “Manolete”. Infatti, per quanto si può essere contrari alle pellicole che vedano luce solo nei dvd o nelle reti pay-per-view, in questo specifico caso è difficile riuscire a trovare una nota positiva durante tutta la noiosa narrazione. Forse il problema della pellicola è che non doveva valicare i confini spagnoli, per la materia trattata: le corride e il più grande torero di tutti i tempi Manuel Rodriguez Sanchez (Adrien Brody), conosciuto come Manolete, idolatrato nella Spagna del Generalissimo Franco come una star hollywoodiana ai giorni nostri. A essere narrata sullo schermo da Meyjes è la scabrosa, non troppo segreta e inaccettabile relazione che il torero portò avanti negli ultimi diciotto mesi della sua vita con l’attrice messicana Lupe Sino, al secolo Antonia Brochalo, interpretata da una Penélope Cruz decisamente sottotono, come tutto il film del resto. Il lavoro si caratterizza per la sua ridondanza soprattutto nelle scene di combattimento con i tori di Adrien Brody (bellissime, ma non bastano!) sempre le stesse, utilizzate e riutilizzate fino all’esaurimento dello spettatore e poi nella didascalia extradiegetica che davvero snerva, tanto che si vorrebbe dire al regista: “abbiamo capito che hai voluto scrivere una sceneggiatura che gioca sui flashback… lo abbiamo capito!”. Siamo di fronte al caso in cui si è convinti che due attoroni (perché “la” Cruz e “il”Brody lo sono!) possano portare avanti e reggere sulle loro spalle il peso di un lavoro che non decolla mai, e, cosa ancora più grave, non emoziona. L’empatia con i personaggi non si può creare, dato che si assiste ad un via vai di pazzi, di duetti e dialoghi banali, retorici e scontati, di azioni incomprensibili, di avvenimenti insignificanti che fanno agire nel modo più incomprensibile i personaggi: roba che Almodovar e le sue “Donne sull’orlo di una crisi di nervi” sembrano tranquille. Certo quelle di Pedro sono situazioni comiche, qui siamo di fronte ad una tragedia (almeno per chi ha la forza di restare seduto al cinema).

lunedì 8 novembre 2010

NINE: RECENSIONE


Dimenticate Fellini e godetevi questo musical!”: ecco la frase che dovrebbe capeggiare all’inizio di “Nine”, il nuovo film di Rob Marshall. Del resto è davvero difficile, guardando l’opera, non aver in mente le immagini di “8 ½”, quando per mesi non lo si è paragonato ad altro. RifareFellini certamente non è facile. Rifare poi il film più intimo del regista di Rimini, appare quasi impossibile ed il risultato finale di “Nine” ne è la prova evidente. Dopo averlo presentato come remake, e poi, correggendo il tiro, proposto come lavoro liberamente ispirato al musical di Broadway – tra l’altro mai riconosciuto dal regista de “La Dolce Vita” – Marshall non riesce nel suo intento mal velato, di omaggiare il cinema italiano e il suo più grande regista. In molte parti la pellicola finisce per essere l’esatta copia del capolavoro felliliano, ma non è all’altezza, di quello che è considerato ancora oggi uno dei cinque film più belli nella storia del cinema. Detto ciò, si può cercare di salvare il salvabile. Marshall aveva tra le mani un cast invidiabile di attrici: Penélope Cruz, nel ruolo dell’amante capricciosa e un po’ stupida di Guido; Marion Cotillard, splendida moglie che soffre delle continue bugie raccontate del marito;Sophia Loren, madre defunta e sempre amata; Nicole Kidman, musa ispiratrice; Stacy “Fergie” Ferguson, prostituta da 4 soldi che istruisce, ballando sulle sponde del mare (come in “8 ½”), ai piaceri della vita il piccolo Guido ed infine Judi Dench, sarta e confidente del regista. Tutte comunque un po’ sotto tono: anche perché le si dovrebbe mettere a confronto con le dive di Fellini. Ci sono solo due momenti che si possono considerare realmentemusical in tutto il lungometraggio: la prestazione di un’ispirata Judie Dench, persa nelle sue “Folies Bergère” e l’ottima prova della “debuttante” Fergie, che esalta la supremazia sessuale del maschio italico (“Be italian”). La narrazione procede su due piani: quello della realtà e quello dell’immaginazione. Nel primo c’è un regista (Daniel Day-Lewis) che deve realizzare un film e ha esaurito le idee, nel secondo ci sono tutti i suoi sogni: il rapporto con le sue donne, le sue ossessioni, i suoi desideri, la sua lussuria, la sua passione, la sua arte, la sua voglia di esprimersi ancora, che assumono la forma di canzoni. Guido è, prima di tutto, uomo che è rimasto bambino, che gioca a vivere, che non riesce a smettere di recitare la parte del regista anche nella vita. Plauso a Marshall, che si conferma uno dei più grandi registi di musical in attività. Molto piacevole il contrasto tra i colori luminosi ed il bianco e nero dei ricordi e le meravigliose coreografie durante le canzoni, seppure a un livello molto inferiore rispetto a “Chicago”. Purtroppo nel film l’immagine degli italiani è il risultato dei soliti stereotipi che ci accompagnano da sempre: Italia? Spaghetti e Mandolini! E a tutto ciò si aggiunge anche un’altra nota d’amarezza: perché sono dovuti venire gli americani a rifare la nostra “Dolce Vita”? Con quel pizzico d’orgoglio che ci rimane, potremmo dire, parafrasando Quintiliano, Fellini toto nostro est!

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...