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giovedì 10 febbraio 2011

RAGAZZE INTERROTTE: RECENSIONE

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Confrontarsi con le adolescenti e i problemi psicologici di quell’età non è mai facile, soprattutto se questi delicati temi sono affrontati in una pellicola cinematografica. La maggior parte di queste opere scadono quasi sempre nel patetico, nel compassionevole nella banalità e, perché no, nel giudicabile. Ragazze interrotte” di James Mangold riesce invece nel difficile compito di rendere giustizia senza false moralità ad una storia drammatica di povere ragazze costrette a curarsi dai propri problemi mentali. Le vicende, tratte dalle memorie di Susanna Kaysen, si svolgono nel 1967 quando la ragazza (interpretata dalla bravissima Winona Ryder) finisce al Clymoore Hospital. Nonostante infatti i problemi della giovane Susanna sembrano comuni a quelli delle adolescenti di tutto il mondo (confusione, amori falliti, insicura sul mondo, incertezza del futuro) lo psichiatra che la ha in cura la etichetta come una disturbata mentale. Da quel momento in poi oltre alla personale avventura della ragazze conosciamo anche le altre pazienti di questo ospedale: tutte giovani, che hanno “interrotto” la loro vita nel fiore degli anni. Sicuramente i personaggi più affascinanti sono: Lisa, Angelina Jolie per una volta in versione non super sexy, è una sociopatica, e Daisy, Brittany Murphy, è una figlia di papà che ama i lassativi. Del resto c’è anche da dire che la Jolie grazie a questo film ha vinto l’unico Oscar della sua carriera; Oscar per altro meritato e questo ci ricorda sempre che molte volte sono le scelte sbagliate a trasformare una brava attrice esordiente in una mediocre attrice in carriera. “Ragazze interrotte” ha una narrazione senza troppi fronzoli. È la storia di una scelta quella che deve fare la protagonista. Attraverso le pagine che scrive sul suo diario, deve decidere cosa ha intenzione di fare: può salvarsi o rimare in un eterno limbo di pazzia. La forza del film è nella sceneggiatura. I personaggi si muovono all’interno di poche location, lasciando ampio spazio ai lunghi monologhi e a dialoghi brillanti. I più critici troveranno melense il lieto fine, ma è il giusto contrappeso alla drammatica storia.

mercoledì 24 novembre 2010

LA LEGGENDA DI BEOWULF: RECENSIONE

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Il cartone animato non è più un prodotto esclusivo per bambini. Anzi, nel caso de “La leggenda di Beowulf”, è meglio evitare di mostrarlo agli spettatori più piccoli. Sesso e violenza sono le armi che utilizza il regista Robert Zemeckis per portare in sala l’eroe più famoso delle mitologie del nord Europa. Il film ha il coraggio di essere tra i primi a sfruttare in maniera brillante il Performance capturem, cioè quella tecnologia che permette di riprendere gli attori con cineprese computerizzate per trasformarli in un secondo momento in personaggi da animazione. Certo è che il cast scelto da Zemeckis, anche se trasportati poi in tre dimensioni è di tutto rispetto: Anthony Hopkins, Ray Winstone, John Malkovich, Robin Wright Penn, Angelina Jolie, giusto per fare qualche nome. La storia rispecchia abbastanza fedelmente il mito originale, già nell’ambientazione: un antico e leggendario regno danese, governato dal Re Hrothgar. La pace del luogo è minata ad un certo punto da Grendel, una creatura malvagia che si impossessa del Re. Ovviamente è solo a questo punto che l’ambizioso Beowulf è chiamato all’azione, date le sue straordinarie capacità sopraumane. La sceneggiatura procede in modo molto lineare e punta tutto sulla spettacolarità delle battaglie, pur non rinunciando spesso e volentieri a stuzzicare l’appetito dello spettatore su grandi temi morali: primo fra tutti l’eterna lotta (ma quando finisce?) tra il bene e il male.

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