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mercoledì 1 agosto 2012

A SIMPLE LIFE: RECENSIONE

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Non c’è bisogno di effetti speciali o di chissà quale grande concept per realizzare un buon film: basta una storia semplice, dei personaggi ben scritti, una regia pacata ed il gioco è fatto. “Tao Jie (A simple life) è proprio una pellicola del genere, una pellicola che si potrebbe definire “educata”, nel senso che riesce ad imporsi all’attenzione dell’interlocutore in maniera quieta, senza alzare la voce, senza dover strafare, senza dover indossare inutile bigiotteria per abbellirsi. 

La regista cinese Ann Hui si ispira a fatti realmente accaduti per raccontare il rapporto di amicizia tra un produttore cinematografico sulla cinquantina (Andy Lau) e la domestica Ah Tao, che ha servito ben quattro generazioni della sua famiglia. Il film ha come tema centrale la famiglia, che ancora una volta è tale pur non essendoci un vero e proprio legame di sangue. I due protagonisti infatti sono inseparabili e hanno un rapporto quasi morboso, l’uno che aiuta l’altro a vivere e sopravvivere nella società moderna. La donna non è la madre, ma con il suo amore ha cresciuto questo ragazzo, che le dimostra la sua gratitudine proprio nel momento del bisogno, cioè quando la donna, a causa di un infarto, dovrà abbandonare il suo lavoro da governante per andare in una casa per anziani. In fin dei conti, “A simple life” è uno di quei film dove non accade nulla: nessun colpo di scena stupefacente. Tutto è molto lineare ed ordinato e la vera forza della pellicola sono i personaggi: talmente ben caratterizzati da far scorrere veloce i 117 minuti di frame by frame. 

C’è da dire che intelligentemente la regista ha affidato ad Andy Lau, uno dei migliori attori esistenti, il ruolo di protagonista, che veste perfettamente i panni del ragazzino diventato uomo, che rispetta e ama questa donna più di sua madre, con la quale non ha alcun tipo di rapporto. Il cinema cinese è un’industria veramente viva, che regala al mondo prodotti sempre di buona fattura e non è un caso che, negli ultimi anni, anche i distributori italiani se ne siano accorti (vedi l’uscita in sala in queste settimane di “Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma”, sempre con Andy Lau). C’è da sperare che anche questo lavoro arrivi presto nelle nostre sale, perché ne vale davvero la pena: soprattutto nei momenti meta-cinematografici, in cui la regista prende bonariamente in giro tutta l’industria del cinema dai produttori agli spettatori. Infine una curiosità sulla pellicola? La partecipazione del regista Tsui Hark, che interpreta se stesso. 

domenica 17 aprile 2011

DAYS OF BEING WILD: RECENSIONE

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Con “Days of Being Wild”, Wong Kar-wai si allontana definitivamente dalla influenza e dalle suggestioni del cinema di Hong Kong, di cui aveva dato prova nel suo primo lungometraggio “As Tears Go By”, dove era riusciuto a mescolare magistralmente action e melò. Affiancato dal suo fedele direttore della fotografia, Christopher Doyle, con questo lavoro il regista comincia a costruire e a dare forma a quello stile che lo renderà inconfondibile negli anni successivi. 

In “Days of Being Wild” assistiamo alle vicende intrecciate di quattro personaggi nella Hong Kong degli anni ’60. Il perno dell’azione ruota intorno all’amore, già, nella visione poetica del regista, irrealizzabile, sfuggevole e, per certi versi, solo platonico; un amore che tanto più è smisurato, tanto più non trova un epilogo felice. Yuddi (Leslie Cheung) è un dongiovanni insensibile, cresciuto da una prostituta perché abbandonato dai genitori quando era piccolo. Riesce a far innamorare di lui due bellissime ragazze: Su Li-Zhen (Maggie Cheung), un’ingenua cassiera e Mimì (Carina Lau), ballerina dai facili costumi. A questi protagonisti si aggiunge un ex poliziotto (Andy Lau) alla ricerca di se stesso che incontrerà i vari personaggi in momenti diversi della loro vita. 

Il giovane ed inesperto Wong Kar-wai (il film è del 1991) non riesce ancora a realizzare una pellicola sublime. Tante le pecche di questo film, che saranno poi praticamente azzerate nelle opere (d’arte) successive. In questo momento, sono ancora troppo eccessivi i momenti di pathos melenso e i sentimenti d’amore esagerati, addirittura isterici, dei vari personaggi. Certo si cominciano a notare con più chiarezza i tòpoi della filmografia che verrà: quel senso di disperazione quotidiana, di inadeguatezza, di perenne insoddisfazione e di continua sospensione, si realizza attraverso le immagini dei dettagli, nelle inquadrature che sviscerano l’anima accompagnate da una musica dolce, ma indagatrice, in una visione onirica del mondo e dei sentimenti dell’umanità. 

“Days of Being Wild” avrebbe dovuto avere un seguito, come quasi tutti i progetti nati dalla mente di Wong Kar-wai. Gli scarsi incassi al botteghino non hanno permesso al regista di affrontare un sequel, come sembrerebbero presumere le ultime inquadrature del film. Certo è che questa pellicola è la prova generale, con i suoi personaggi e le sue ambientazioni, per “In the Mood for Love”, che vedrà la luce solo dieci anni più tardi.

lunedì 11 aprile 2011

AS TEARS GO BY: RECENSIONE

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Anche i grandi registi hanno dovuto affrontare l’ostacolo dell’opera prima. Wong Kar-wai nell’anno 1988 approda al cinema con “As Tears Go By”, mostrando al mondo il suo talento. Si presenta così, con un’opera che risente della new wave orientale, uno dei registi che hanno rinnovato il cinema cinese. Wong Kar-wai si dedica sin dal suo primo lungometraggio, alla sperimentazione e all’innovazione del linguaggio cinematografico, pur mantenendo sempre nelle sue opere quel distinguibile taglio classico cinese. 

“As Tears Go By”è un racconto appassionato sui bassi-fondi di Hong Kong degli anni ’80, dove si svolge la storia di Ah Wah, un “Big Brother”, interpretato da Andy Lau, che deve difendere suo fratello (Jacky Cheung), il quale non sa tenersi lontano dai guai. Ah Wah non desidera salire la scala gerarchica della malavita organizzata e quando incontra la donna della sua vita, sua cugina, decide che è il momento di cambiare. 

La trama ricalca in toto, come si può ben capire, i cliclè e gli stereotipi del gangster movie. L’opera prima del regista cinese è però un mix di generi, dato che ha il pregio di mescolare il cinema popolare di Hong Kong, con le più moderne opere americane. Del resto è impossibile non considerarlo una sorta di remake con gli occhi a mandorla del capolavoro di Martin Scorsese, “Mean Streets”, anche se, giustamente, manca in “As Tears Go By” quel senso di colpa cristiano che pervade la pellicola di Scorsese. 

Eppure, nonostante il film non sia il capolavoro di Wong Kar-wai (quelli arriveranno molti anni dopo), sono già presenti in piccolo tutte le caratteristiche del suo cinema maturo, quelle che ad inizio millennio lo consacreranno come uno degli autori del nostro tempo. Già nel modo di raccontare la storia si capiscono le peculiarità del regista. I personaggi sono al centro dell’universo, mentre la vicenda è solo un pretesto per entrare in contatto con l’animo e i sentimenti universali dell’umanità. Del resto, nel cinema di Wong Kar-wai tutto è assoggettato al Fato a cui, prima o poi, bisogna saldare il conto; dunque i protagonisti non scelgono come agire, ma sono quasi costretti a comportarsi in un determinato modo. 

Tra le caratteristiche di questo film c’è l’esperimento di proporre il videoclip di MTV, nato proprio negli anni ’80, al cinema, accentuando le luci al neon e i rallenty, che poi il regista riprenderà con più effetto nei due film che seguiranno (“Days of Being Wild” e “Hong Kong Express”). È però nelle inquadrature dei particolari, degli sguardi, nei movimenti lenti e sempre delicati delle donne, che Wong Kar-wai si fa riconoscere anche in questo primo lavoro, in cui il genio è ancora grezzo, e la poetica è ancora centellinata. 

Un altro tratto distintivo del cinema del cineasta è la scelta della colonna sonora. Anche in questo caso il richiamo alla lontana America è rievocato attraverso una cover di “Take My Breath Away”, con Andy Lau ad interpretare un moderno “Top Gun” cinese. Il risultato infine è un lavoro che racconta in modo ironico, ma assolutamente lirico, le imperfezioni e le brutture della società.


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