Chi non ha mai desiderato cavalcare con Atreyu o di volare in groppa a Falkor? Ponete questa domanda a tutti quelli nati negli anni ’80 e da pochissimi otterrete una risposta negativa. “La storia infinita” era un must, uno di quei film che hanno accompagnato la strada verso l’età adulta di molti adolescenti occidentali. Uscito in sala nel 1984, la pellicola, tratta dall’omonimo romanzo di Michael Ende, racconta la storia di Bastian un ragazzo che ama moltissimo leggere, tanto da esserne ossessionato. Dopo che il vecchio bibliotecario gli parla di un libro magico, il ragazzino comincia a leggerlo e di colpo si trova in empatia con i magici personaggi che popolano la storia, ritrovandosi inconsapevolmente in una terra, Fantàsia, che ha bisogno di un eroe. Come capita spesso ai best seller diventati poi materia da celluloide, abbiamo due fazioni contrapposte: una che osanna il film e l’altra di denigratori, capeggiata già durante l’uscita in sala della pellicola dallo stesso Ende. Due facce della stessa medaglia, che alimentano il mito e del romanzo e del racconto per immagini. Ma che cos’è “La storia infinita”? Certamente è un decalogo di effetti speciali: il meglio della tecnologia anni ’80 riassunto in 92 minuti. Costato un’enormità, oltre 20 milioni di dollari, il film è una delle produzioni tedesche più costose di tutti i tempi, in cui buoni e cattivi si muovono come se tutta l’azione si svolgesse all’interno di un immenso circo. Perché questo è anche l’effetto che si crea: sembra che l’azione e il ritmo d’avventura debbano spiccare il volo da un momento all’altro, ma si resta sempre fermi, immobili e la conclusione avviene in modo troppo affrettato. A far sognare comunque gli spettatori, oltre alla stellare fotografia, ci pensa la leggendaria colonna sonora, ancora oggi una hit che rievoca paesaggi fantasiosi e magici. Che poi si condivida o meno il messaggio filosofico (può esistere una società senza sogni?), praticamente simile nel romanzo e nel film, questa è un’altra storia, che non deve limitare chi si vuol godere le avventure del piccolo Bastian.
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mercoledì 5 gennaio 2011
martedì 14 dicembre 2010
MOON: RECENSIONE
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“Moon”, ovvero il cinema fatto bene. Che sia una storia di fantascienza non deve spaventare i non amanti del genere, infatti Duncan Jones realizza un’opera di straordinaria intensità e genialità. Girato con un budget striminzito, “Moon” racconta le vicende di Sam Bell un solitario astronauta, in un futuro non troppo lontano, in cui una multinazionale sfrutta le riserve di Helium 3 della Luna. A due settimane dalla conclusione del suo contratto e dopo aver passato tre anni da solo in una base lunare, Sam ha un incidente e da questo momento il mistero avvolgerà gran parte della pellicola: da fantascienza a giallo il passo è breve e l’avventura si tinge di metaforica originalità, ricca di contenuti che non ti aspetti. A donare al tutto un ottimo effetto di spettacolarità ci pensano le straordinarie scenografie grazie alle quali Jones ricrea i paesaggi lunari, omaggiando tutte le pellicole spaziali. Alla base di tutto il film ci sono grandi temi morali analizzati però a fondo, nonostante la scelta di avere in scena un unico personaggio/protagonista, interpretato dal bravissimo Sam Rockwell. A differenza però dei blockbuster, in cui l’effetto speciale è principale rispetto alla storia, in “Moon” la storia e la sceneggiatura la fanno da padroni. C’è una grande attenzione per la solitudine di Sam, tanto da farci capire che secoli di evoluzione non bastano a smontare i grandi temi filosofici che accompagnano l’essere umano fin dai suoi primi passi sulla Terra, anche se in questo caso i passi sono sulla Luna. La suspence è sapientemente utilizzata, creando nello spettatore prima un senso di grande confusione che pian piano si trasforma in una grande empatia con il protagonista per la realizzazione del suo obiettivo. Un film sugli uomini e sulle le loro paure, che a volte vanno risolte a 400.000 km da casa!
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