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martedì 18 giugno 2013

HERO: RECENSIONE

I miglior attori cinesi (Jet Li, Maggie Chung, Donnie Yen, Zhang Ziyi e Tony Leung), un grandissimo regista come Zhang Yimou e capolavoro è servito. “Hero” è un bellissimo film (che ha avuto anche il plauso di Quentin Tarantino) ambientato in un tempo lontanissimo quando ancora la Cina era divisa in sette regni. Il guerriero Senza nome (Jet Li) racconta, invitato a palazzo, al re Qin, come sia riuscito a uccidere i tre guerrieri che si opponevano alla politica di riunificazione del paese. Tre guerrieri fortissimi, quasi imbattibili, che però sono stati ormai annientati.


Zhang Yimou cura ogni minimo dettaglio del suo film e la storia, che procede per lunghi flashback, è un’esperienza visiva unica, travolgente e piacevole. Tutto è soave e soffice, anche i momenti più drammatici si trasformano in un quadro. Le scenografie sono maniacalmente curate, come tutti gli altri elementi, esasperati fino all’inverosimile, e sono necessarie per capire la passione che spinge i personaggi ad agire, rendendo al meglio l’essenza stessa dell’opera. Stile fiabesco e baroccheggiante, soprattutto nei coreografati combattimenti, dove gli attori, avvolti dalle foglie dorate, si esibiscono in danze con le spade. L’esagerazione però non scade mai nel ridicolo, anzi rende tutto più spettacolare e geniale.

lunedì 4 luglio 2011

2046: RECENSIONE

Postato anche su Film4Life...

Con “2046” il regista Wong Kar-wai realizza finalmente un suo sogno: dirigere un dittico di film. Dopo la strabiliante prova di “In the mood for love”, la naturale conclusione è “2046”, che si accosta al predecessore con la stessa musicalità con cui si finalizza un accordo di settima. 

Siamo nel 1966 e Cho Mo Wan ha lasciato Hong Kong per Singapore, dove sta cercando di scrivere il suo romanzo ambientato nel 2046, che è anche il numero della stanza dove si incontrava con la signora Chan. In questo manoscritto inserisce tutte le sue passioni, i suoi ricordi e soprattutto le tre donne che hanno inesorabilmente finito per condizionare la sua esistenza. 

Wong Kar-wai stavolta realizza un lavoro epico, kolossale, che raccoglie come una opera omnia tutto quello che ha caratterizzato la sua filmografia. Intanto regala allo spettatore le meravigliose interpretazioni dei più grandi attori cinesi viventi, che non hanno nulla da invidiare ai divi hollywoodiani; ma allo stesso tempo, abbandonando il romanticismo, dona degli spinti di riflessione sulla natura dell’uomo, in un universo più cinico e disincantato. 

Un film che racconta la ricerca del passato e l’importanza della memoria nel presente, lanciando sempre un occhio a ciò che il futuro può regalare all’individuo. L’inizio della pellicola, decalogo del buon cinema degli effetti speciali, fa entrare perfettamente lo spettatore nell’atmosfera delicata e malinconia di “2046”, concludendo al meglio “In the mood for love” e aprendo uno spiraglio verso una nuova narrazione.

mercoledì 8 giugno 2011

IN THE MOOD FOR LOVE: RECENSIONE

Postato anche su FILM4LIFE... mi dispiace solo di non essere riuscito a scrivere di meglio su uno dei miei film preferiti in assoluto... 


Esistono pellicole difficili da raccontare. Esistono pellicole impossibili da raccontare. Esistono pellicole per cui le parole sono solo superflue. Esistono pellicole che vanno solo viste. E questo è il caso di “In the Mood for Love”, di Wong Kar-wai, uno dei film più belli che il continente asiatico abbia regalato all’umanità. Delicato, etereo, sfuggente, “In the Mood for Love” potrebbe essere considerato a ragione un patrimonio della nostra cultura, qualcosa da salvare e da far conoscere ai posteri. 

Il regista, dopo la parentesi estera con “Happy Together”, ritorna a casa, nella sua Hong Kong nell’anno 1963, per raccontare una storia d’amore impossibile tra due vicini di casa il signor Chow e la signora Chan, che hanno scoperto che i loro rispettivi coniugi sono amanti. Tra i due si instaura un sentimento d’amore che però non trova mai né un inizio né una fine. Del resto la poesia del titolo riassume, già di per sé, tutta la narrazione. Quell’ “in the mood for” – che possiamo tradurre come “avere l’animo predisposto a” – è un sentimento filosofico profondo, che il regista ha quasi sempre raccontato nei suoi film, ma che qui è elevato all’ennesima potenza. La musica, le parole e le ripetitive azioni si fondono alla perfezione, raccontando con eleganza temperata una vicenda “banale”, resa al contempo geniale. 

Quello che colpisce è la differenza rispetto a tutti gli altri film del regista. Quello che si ha di fronte è un Wong Kar-wai maturo, che non deve più stupire il suo spettatore, ma può concentrarsi su una storia semplice e lineare per scandagliare i sentimenti umani e raccontare la politica cinese di quegli anni così difficili. 

Per realizzare questo capolavoro, il regista, che affida l’impeccabile fotografia ancora una volta a Chrystopher Doyle, ha dovuto aspettare parecchi anni. È dovuto crescere stilisticamente e registicamente, ma soprattutto ha dovuto e saputo aspettare i suoi attori, quelli che lo hanno accompagnato fin dalle origini del suo cinema, trasformandoli in quei cigni che tutto il mondo invidia alla Cina. Tony Leung (Palma d’Oro a Cannes) e Maggie Cheung con la loro sobria fisicità trasmettono tutti i sentimenti che i loro tormentati personaggi vivono: basta uno sguardo, un gesto per mostrare un cinema fatto d’azione e con poche spiegazioni. Insomma un capolavoro da non perdere, da rivedere milioni di volte. 

Curiosità: Non ci crederete ma esiste un titolo italiano anche per questo film: “Gli amanti tristi”, che però ringraziando il cielo non è mai stato utilizzato.  

giovedì 2 giugno 2011

HAPPY TOGETHER: RECENSIONE

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“Happy Together” è il primo film che Wong Kar-wai gira fuori dalle mura amiche di Hong Kong. La storia si svolge proprio agli antipodi dell’amata patria, in Argentina, come agli antipodi sono i due protagonisti: due giovani omosessuali, innamorati ma perennemente in conflitto perché troppo diversi tra loro. 

Come in ogni film di Wong Kar-wai che si rispetti, anche in “Happy Together”, l’amore è infelice e tormentato, correlato dai temi cari al regista: la nostalgia, l’esilio, il senso di alienazione, che questi due ragazzi cinesi, in un contesto totalmente diverso dal loro luogo d’origine, vivono moltiplicato all’infinito rispetto agli altri personaggi finora messi sotto l’occhio delle telecamere del regista. 

La pellicola è tutta giocata proprio sul senso di rottura, della rinuncia e soprattutto del conflitto; conflitto che è ben visibile già dalla fotografia, curata dal fedele Christopher Doyle. Si passa con disinvoltura dal bianco e nero ai toni seppia, per poi giungere alla luci al neon della madre patria fino al lussureggianti acqua delle cascate di Iguazu. Certo questo conflitto si percepisce anche nelle musiche, che spaziano dai Beatles, omaggiati fin dal titolo, ai tanghi argentini più suadenti. Però sono i personaggi con i loro ambigui comportamenti a dare allo spettatore un senso di lotta continua, una vita senza pace, sempre alla ricerca di qualcosa che non si sa bene che cos’è. 

Pur mettendo in scena un amore omosessuale, il regista non indugia troppo su questo aspetto. In realtà avrebbe potuto utilizzare tranquillamente una coppia eterosessuale per raccontare questa storia, ma la voglia di avere insieme i suoi attori feticci Leslie Cheung e Tony Leung ha avuto il sopravvento. Del resto gay o no, i protagonisti sono inappagati e insoddisfatti dalla vita, quindi, anche “Happy Together” si ricollega ai leit motiv della filmografia wongkarwaiana. Questo lavoro non è che un altro tassello nel puzzle sui sentimenti umani che l’autore cinese, con tanta maestria riesce a raccontare, scagliando l’animo di chi assiste a narrazioni così sublimi. 

Il film ha vinto il premio alla regia a Cannes nel 1997 e, non si capisce bene per qualche astruso motivo, è stato vietato ai minori di diciotto anni in Italia. Ovviamente vogliamo credere che non sia per le caste scene di sesso omoerotiche o i dialoghi troppo spinti. Comunque “Happy Together” è il preludio per il capolavoro che Wong Kar-wai realizzerà ad inizio millennio: “In the Mood for Love”.

venerdì 6 maggio 2011

HONG KONG EXPRESS: RECENSIONE

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Quarta pellicola di Wong Kar-wai, “Hong Kong Express” è la perla con la quale il cineasta cinese si presenta al mondo. Semisconosciuto fino al 1994, con questo film il regista si fa conoscere al grande pubblico d’Occidente, regalando al Cinema una summa della sua filosofia sull’uomo moderno, attraverso i topòi che hanno sempre accompagnato la sua filmografia. 



Questa pellicola nasce durante una lunga pausa delle riprese del travagliato “Ashes of Time" senza una sceneggiatura ben precisa e solo con l’ausilio di una semplice camera a spalla: anche perché quando un autore parla al cuore dei sentimenti umani non ha bisogno di utilizzare (inutili) effetti speciali. Eppure qualche tecnica per alienare i suoi personaggi, nella caotica, colorata al neon, sudata e lussureggiante Hong Kong, il regista la trova: ad esempio congelando i suoi protagonisti, lasciandoli soli ed immersi nei loro pensieri, mostrando un mondo che attorno a loro si muove in fretta, veloce, illogicamente. 

Come nel primo lavoro, “As tears go by”, le due storie, che si intrecciano in modo debole ma delicato, hanno come personaggi principali due poliziotti (Tony Leung e Takeshi Kaneshiro) e le loro possibili amanti (Faye Wong e Brigitte Lin), con l’amore, come unico fulcro comune delle due storie; amore appena consumato, che rimane un sogno da concludere e mai consumato fino in fondo. Ciò che riesce a creare il regista è una sensazione di malinconico dolore nella nevrosi cittadina, a cui i quattro personaggi non riescono a dare sfogo, se non nella loro intimità e con le loro maniacali abitudini. 

Grande importanza è data, come sempre, alla colonna sonora. Il desiderio di un sogno americano, che alla fine andrà deluso, sono affidate a California Dreamin’ dei Mamas & Papas, ma come in “Days of Being Wild” il regista riadatta le suggestioni occidentali, concedendosi una versione cinese di una canzone all’epoca popolarissima: Dream dei Cramberries, re-interpretata da Faye Wong. È superfluo elogiare la sempre perfetta fotografia di Christopher Doyle, qui affiancato da Keung Lau Wei. 

La passione per il finale aperto, a cui il regista ha abituato i suoi spettatori, è presente, ancora una volta a sottolineare l’indeterminatezza della condizione umana. Ma con questo film Wong Kar-wai si spinge oltre. Addirittura accenna in “Hong Kong Express” la storia che racconterà nel suo seguente film: “Angeli perduti”

giovedì 5 maggio 2011

ASHES OF TIME (REDUX): RECENSIONE

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La versione originale di "Ashes of Time" del 1994, non ha mai trovato una distribuzione sul mercato occidentale per gli scadenti risultati economici in patria ed è andato perduto (o fatto sparire da Wong Kar-wai dalla circolazione, se vogliamo essere un po’ maligni). Ritrovato e rivisitato, il regista cinese ci ha regalato questa versione REDUX, distribuita in Italia dalla BIM, solo in DVD. 

In “Ashes of Time”, Wong Kar-Wai si confronta con il genere del wuxiapian, genere cinematografico cinese, in cui si raccontano vicende di personaggi ed eroi epici con combattimenti volanti e corse a cavallo. La versione “riduzione” del resto ha trovato nuova linfa vitale semplicemente perché questo genere, poco noto negli anni Novanta, è esploso al botteghino USA ad inizio millennio con “La tigre e il dragone”. Come dice l’appellativo dato al film, in questo nuovo adattamento, il regista ha lavorato per decurtazione, limando le scene e non, come magari ci si aspetta da una rivisitazione, aggiungendo parti. 

In una mitologica era, si intrecciano attorno al personaggio dell’eremita Ou-yang Feng tre storie, tenute insieme tra loro, come solo i grandi maestri del cinema sanno fare. Feng vive nel deserto e ogni anno riceve la visita di Huang, uno spadaccino che ha scoperto un particolare vino che cancella la memoria. Huang in passato ha incontrato Yang, a cui ha promesso di sposare sua sorella Yin, ma l’uomo ha infranto la promessa, e Yin assume Feng per ucciderlo. Dall'altra parte Yang assume Feng per uccidere proprio Huang, colpevole di non aver mantenuto la parola data. 

Il regista, anche in questo film, ripropone la sua visione del mondo, in cui “errare è umano”, dove l’amore puro è quello contrastato e irrealizzabile e la sete di vendetta alimenta le speranze. Un ruolo fondamentale lo ricoprono i ricordi e i rimpianti: vere e proprie ossessioni dei personaggi, che nemmeno il pensiero buddista, sbandierato fin dall’inizio della pellicola, riesce a calmare il cuore in tempesta dei protagonisti. 

Lavorando a posteriori, il regista affiancato dal fedele direttore della fotografia Christopher Doyle, con cui ha collaborato già in “Days of Being Wild”, mostra un mondo saturo di colori con forti contrasti cromatici, per sottolineare l’assoluta a-temporalità dell’azione. Il montaggio è serrato, come un battito cardiaco e le sequenze d’azione, rispetto all’originale e agli altri wuxiapian, sono meno spettacolari e più veloci, quasi solo accennate, accompagnate però dalla solita scelta accurata della colonna sonora.

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