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mercoledì 23 gennaio 2013

QUARTET: RECENSIONE

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Cecily, Reggie e Wilfred sono tre anziani cantanti d’opera che vivono a Beecham House, una casa di riposo per artisti, e vogliono organizzare il consueto concerto annuale, di raccolta fondi per la loro residenza, che si svolge in occasione del compleanno di Verdi. L’equilibrio sarà sconvolto dall’arrivo di Jean, ex moglie di Reggie, che si crede ancora una diva e si rifiuta di cantare. Ecco la storia con cui si confronta Dustin Hoffman per la sua prima volta da regista nella sua opera prima dal titolo “Quartet”.
Da anni sulla scena mondiale in qualità di attore, Dustin Hoffman convince anche nella sua prima alla regia, regalando agli spettatori una pellicola che è un’ode alla gioia di vivere, sfruttando fino in fondo ogni istante che ci è concesso su questa terra. A rendere davvero divertente la commedia ci pensando soprattutto i quattro protagonisti, pennellati alla perfezione in sceneggiatura, a cui è impossibile non affezionarsi, ognuno con un carattere e soprattutto con difetti contraddistinti che portano le situazioni ad essere ricche di humor, facendo riflettere senza scadere mai nella becera retorica.
Alla fine, Hoffman mette insieme un parterre de roi, dirigendo Maggie Smith, Albert Finney, Tom Courtenay, Billy Connolly e Pauline Collins, per un film che, pur non lasciando il segno, vale la pena di andare a vedere, giusto per distarsi e pensato più che altro per un pubblico specifico: amante della buona musica e in avanti con gli anni.
“Quartet”, che ha aperto lo scorso novembre la 30esima edizione del Torino Film Festival, arriva nelle sale italiane il 24 gennaio prossimo. 

venerdì 4 marzo 2011

PROFUMO – STORIA DI UN ASSASSINO: RECENSIONE

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Profumo – Storia di un assassino” è uno di quei film in cui il giudizio di pubblico e critica non è unanime. Se chiedete a qualcuno che si reca al cinema una tantum vi dirà che questo film è un capolavoro, se chiedete quello che pensa ad un critico o ad un cinefilo non può che essere scettico sul lavoro del regista Tom Tykwer. Partiamo dalla storia. Tratta dall’omonimo romanzo di Patrick Süskind, la vicenda narra la vita di Jean Baptiste Grenouille, un profumiere francese di metà diciottesimo secolo. Nato nel quartiere più puzzolente di Parigi, il giovane, crescendo, decide, grazie al suo dono di percepire tutti gli odori, di creare il profumo perfetto, il profumo che arrivi a parlare all’anima degli uomini. Per realizzare questo suo sogno, non si crea il minimo scrupolo, nemmeno quello di macchiarsi del crimine più terribile: l’omicidio.

Ora, nel libro, tutto passa attraverso le sensazioni olfattive del protagonista e tutti i suoi stati d’animo e le sue azioni sono ben spiegate. Nel film purtroppo le lunghe descrizioni interiori sono raccontate da una (discutibile) voce off, appartenente ad un cinema d’altri tempi, demodè. 

Tutto procede bene, anche se sembra assurdo che quest’uomo non provi alcun tipo di rimorso per tutto ciò che sta commettendo. Arrivando verso la risoluzione finale, il tono della narrazione cambia: sparisce il mondo dell’olfatto e tutto si concentra sulla parte da serial killer, con gli abitanti del paese preoccupati a salvare le loro donzelle. 

L’ultimo quarto d’ora è poi un’eresia per gli amanti del cinema. Si passa da un videoclip musicale simil-porno, con un’orgia cittadina che dovrebbe essere giustificata, ma che fa solo sorridere dato che tutti sembrano modelli e modelle di una pubblicità di Dolce & Gabbana, per finire proprio ad un’assurda conclusione, che davvero non ha alcun senso logico. Va bene che il “delirio” ha reso immortali grandi registi, ma in questo caso la situazione è ben diversa e più vicina al comico, involontario, ma pur sempre comico, che al capolavoro. 

Dunque partendo dalla premessa che è difficile, se non impossibile, portare al cinema un romanzo introspettivo e, in questo caso, con l’aggravante delle sensazioni, è meglio sempre lasciare certe storie solo al mondo della letteratura.

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