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lunedì 9 dicembre 2013

GRAND PIANO: RECENSIONE


Postato anche su Four Magazine... 

Grand Piano di Eugenio Mira è stato scelto come film di chiusura della 31 edizione del Torino Film Festival e domani sarà proiettato dopo la consegna dei premi. La pellicola può essere considerata una sorta di thriller psicologico ed esistenziale, in cui il protagonista, interpretato da Elijah Wood, riceve ordini da una voce, attraverso un auricolare, durante il concerto con il quale sta per ritornare alla ribalta a cinque anni di distanza dalla sua ultima esibizione. Il problema è che qualcuno è interessato più di Tom Selznick a questa sua nuova performance e lascia sullo spartito un semplice messaggio: “Suona una nota sbagliata e morirai”. Da qui comincia il dramma umano del giovane e talentuoso pianista, che deve affrontare e la sua paura per il pubblico (dopo che cinque anni prima aveva sbagliato tutte le note de La Cinquette, il brano impossibile) e la paura della morte, visto che questo killer tiene sotto scacco lui e soprattutto la moglie, una celebre attrice che sta assistendo al concerto.

Eugenio Mira cerca in Gran Piano di sperimentare il più possibile e cerca di sperimentare qualche cosa di nuovo per il suo film, cercando di creare tensione, nota dopo nota. Il tentativo, fallito, è quello di creare un crescendo come durante un concerto, mantenendo un profilo basso nei primi brani per poi aumentare l’intensità alla fine. Il regista vuole trasmettere così  l’inquietudine dell’anima del pianista, incutendo timore anche allo spettatore, non ci riesce in nessun momento. L’opera risulta quasi comica e, se qualche trovata interessante è stata inserita qua e la nella sceneggiatura, si tratta solo di richiami ad altri film dello stesso genere (un uomo comandato a distanza da una voce che vuole ucciderlo) che già si sono visti più e più volte sul grande schermo. Forse il difetto più grande errore è stato quello di essere troppo citazionista: come non pensare immediatamente ai thriller di Brian De Palma o non sorridere quando Elijah Wood si trova penzoloni sul tetto del teatro, chiaro riferimento a Il Signore degli anelli?

Inoltre nemmeno l’alone di mistero attorno al pianoforte, che nasconderebbe un segreto miliardario, riesce a interessare più di tanto chi sta guardando il film, dato che è abbastanza chiaro come andrà a finire il tutto. Inoltre sembra quasi impossibile che un pianista di successo non si distragga nemmeno un secondo e riesca a suonare alla perfezione, mentre un perfetto estraneo, che lo sta minacciando di morte, si perde in lunghissimi monologhi, per spiegare al pubblico la storia. Insomma Grand Piano, per non rimanere delusi, deve essere preso per quello che è: un film che può far divertire per come è costruito, ma che non “rimarrà nei libri di storia”, giusto per menzionare anche qualche battuta del lavoro di Eugenio Mira.

mercoledì 2 gennaio 2013

LO HOBBIT: UN VIAGGIO INASPETTATO - RECENSIONE


Postata anche su Voto10... 

Chiunque abbia amato la trilogia de Il Signore degli Anelli, dopo l’ultimo film aveva un pensiero: vedere trasportato sul grande schermo anche quel romanzetto che è Lo Hobbit, prequel di una delle saghe letterarie più amate di tutti i tempi. Ci sono voluti 8 anni dall’uscita in sala del terzo capito del Signore degli Anelli per far sì che Peter Jackson potesse realizzare il sogno di girare anche le avventure del giovane Bilbo Baggins. Sì, perché Lo Hobbit, come molti sapranno, altro non è che il racconto di come Bilbo abbia aiutato i nani a riconquistare il loro territorio e di come, sempre questo hobbit, abbia ritrovato l’anello del potere.
Peter Jackson, che all’inizio voleva solo essere produttore del film, si è ritrovato nuovamente a dover immergersi nello scenario incantato della Terra di Mezzo, per far diventare immagini quello che è da molti considerato il più bel romanzo per ragazzi del secolo scorso. Romanzo per ragazzi, appunto! Chi infatti va a vedere Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato deve partire fondamentalmente da questa premessa, perché quando J.R.R. Tolkien decise di scrivere le avventure di Bilbo aveva il cuore più leggero rispetto all’epopea de Il Signore degli Anelli. Del resto anche la bibliografia tolkeniana subisce una esclation: se Lo Hobbit è un romanzo per ragazzi, il Signore degli Anelli è un romanzo per adulti, mentre il Silmarillon, essendo mitopoietica, è un “romanzo” per studiosi letterari ed appassionati di Tolkien.
A Peter Jackon è quindi toccato l’ingrato compito di girare Lo Hobbit dopo aver affascinato il mondo con Il Signore degli anelli e quindi era quasi inevitabile che, chi si attendeva la stessa epicità della trilogia, sia rimasto deluso. Eppure Peter Jackson ha compiuto davvero dei miracoli: 1) è riuscito a fare di un libriccino, altri tre film e 2) è riuscito a rendere omogenei questa nuova trilogia con quella passata. Ciò che fa Peter Jackon e la sua fortissima squadra di collaboratori è molto semplice: riportarci indietro all’inizio de La compagnia dell’Anello, quando Bilbo Baggins ci sta spiegando cosa sono gli Hobbit e da lì, senza soluzione di continuità, inizia il nuovo racconto, con rimandi più o meno espliciti a ciò che succederà nel futuro (che noi già conosciamo!).
Peter Jackson poi non si è accontentato. Nel momento in cui Guillermo Del Toro ha abbandonato il timone della regia, Jackson ha sì accettato con entusiasmo ma ha deciso di rischiare, provando e mostrando al mondo che esiste anche una nuova tecnica per girare un film a 48 fotogrammi al secondo, quindi velocizzando la classica visione cinematografica di due volte, dato che convenzionalmente un secondo equivale a 24 frame. L’inizio è spiazzante. Che cosa sto vedendo, si potrebbe pensare. L’occhio di qualsiasi spettatore non è abituato a tanta frenetica al cinema e quindi si rimane davvero intontiti e si ha desiderio di abbandonare la sala. Ma questa sensazione di disagio, tipica di quando ci si trova di fronte a qualcosa che non si è mai vista, sparisce subito, quando l’occhio si abitua e quello che resta dentro è la meraviglia, forse (e vogliamo esagerare!) la stessa meraviglia che hanno avuto i primi cine-spettatori dei fratelli Lumiere. Con i 48 fotogrammi al secondo il 3D, tanto amato in questi ultimi anni dai registi, cambia completamente veste: da scuro diventa finalmente luminoso e rende il racconto cinematografico ancora più reale, vicinissimo alla percezione dell'occhio umano. La genialità di Peter Jackson sta forse anche in questo, nel rendere reale ciò che in realtà reale non è, dato che siamo pur sempre di fronte ad un film fantasy, genere che senza la trilogia de Il Signore degli Anelli, forse oggi non avrebbe tutto questo spazio né al cinema né nelle serie televisive.
Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato è un esperimento, una novità che è perfettamente riuscito. Il racconto può subire dei bruschi rallentamenti in molte parti, ma in fin dei conti come possiamo giudicare un lavoro ancora incompleto? Già perché non ci dimentichiamo che questo non è altro che il primo capitolo di una nuova saga che si concluderà solamente nell’estate del 2014. Quello che è certo è che, come per Il Signore Degli Anelli, dopo la trilogia de Lo Hobbit, Hollywood non sarà più la stessa!


E lasciamoci così... con la canzone dei titoli di chiusura, cantata da Neil Finn dal titolo "The Song of Lonely Mountain": 



Concludo il tutto con la MINIRECENSIONE pubblicata anche sulla pagina facebook Mini Movie Review e sull'account Instagram sempre di Mini Movie Review:



martedì 9 novembre 2010

IL SIGNORE DEGLI ANELLI - LE DUE TORRI: RECENSIONE






Come dice Gollum all’inizio della pellicola: “L'Oscuro raduna tutti gli eserciti. Tra non molto, lui sarà pronto. Pronto a fare la sua guerra, l'ultima guerra, che ridurrà tutto il mondo nell'ombra”. Ecco in breve quello che accadrà ne “Il signore degli Anelli – Le due torri”. Infatti, se nel primo capitolo la preoccupazione di Peter Jackson è quella di chiarire ai non lettori di Tolkien qual’è l’universo nel quale si stanno addentrato, in “Il signore degli Anelli – Le due torri” le spiegazioni lasciano spazio all’azione vera e propria, con la prima strepitosa battaglia nella Terza Era della Terra di Mezzo: quella al fosso di Helm. Anche in questo adattamento del capolavoro tolkiano sono sempre presenti, come in tutta la trilogia del resto, i temi tanto cari al linguista di Bloemfontein. Sicuramente per quanto riguarda questo secondo lavoro, l’accento è posto sull’inizio della lotta tra il Bene e il Male, in un mondo che sta precipitando nelle fauci dell’industrializzazione, sotto la guida dell’avidità umana. I toni sono decisamente pessimistici e dark, rispetto alla prima opera; del resto come si può essere ottimisti in un mondo infettato dal germe della distruzione? Se Tolkien abbia poi una visione di destra o di sinistra agli amenti del cinema fortunatamente non deve interessare anche perché Jackson e la sua meravigliosa squadra compiono l’impresa di rendere ancora una volta e di più immortali le vicende della Terra di Mezzo, edulcorando da tutte le inutili speculazioni politiche. Un elemento fondamentale di questa “seconda puntata” è il montaggio, perché, rispetto a “La compagnia dell’anello”, si seguono più storie (Frodo e Sam diretti a Mordor; Merry e Pipino catturati dagli Orchi; Legosas, Gimli e Aragorn sulle tracce dei due piccoli Hobbit; Saruman e Re Theoden; ecc…), che avvengono in luoghi e situazioni diverse. Nonostante questa frammentazione (sicuramente già prevista a livello di sceneggiatura) la narrazione risulta sempre lineare e piacevole, e non stanca mai chi sta ammirando i meravigliosi paesaggi neozelandesi di Arda. La pellicola ha incassato 926.300.000 di dollari in tutto il mondo, di cui 20.546.529 di euro in Italia. Godetevi dunque anche questa avventura, magari gustando un po’ del vecchio Tobia, la miglior erba pipa del Decumano Sud.

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