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mercoledì 1 agosto 2012

W.E.: RECENSIONE FILM MADONNA


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“W.E.” è il secondo lavoro da regista della cantante Madonna, presentato alla 68esima Mostra Internazionale del cinema di Venezia nella selezione ufficiale fuori concorso. Il film racconta le storie parallele di due donne, Wally Winthrop e Wallis Simpson, lontane nel tempo ma vicine per fragilità d’animo e desiderio di amore. La prima rinuncia a tutto per sposare uno psichiatra di successo, uno “strizzacervelli” che nel suo immaginario è l’incarnazione del moderno principe azzurro. Il suo matrimonio però va a rotoli e la tanto agognata felicità è solo un lontano ricordo. Per questo Wally si mette alla ricerca di notizie su Wallis Simpson, la donna che nel 1936 sconvolse il mondo: re Edoardo VIII, infatti, rinunciò alla corona inglese in favore del fratello Bertie solo per amore di lei. 


Madonna dunque riprende una vicenda storica che recentemente è stata affrontata sul grande schermo anche ne “Il discorso del re”, donando però una visione del tutto femminile vicende. Infatti nonostante i cambi temporali presente/passato siano repentini, l’amore tra Wally e Edoardo è tutta raccontata secondo il punto di vista di lei, per redimere la donna, offrendo al pubblico una nuova chiave di lettura, dato che per quasi cento anni è stata considerata il male assoluto. Come ha sottolineato la regista, il suo scopo è quello di raccontare anche a che cosa sono disposte a rinunciare le donne per amore (libertà, privacy, dignità), mostrando come il glamour e la fama non siano necessariamente fonte di felicità. La regista scava affondo nell’animo dei suoi personaggi, portando a galla ad esempio la quotidianità della nobiltà di inizio Novecento, con delle scene di danza e “happy hour” (forse troppo anacronistici) che riprendono e citano “Marie Antoinette” di Sophia Coppola. La pellicola è giocata molto sulla triade eterna di sesso, cibo e denaro, tre figure che accompagnano da sempre la storia dell’uomo e che Madonna, la regista Madonna, conosce molto da vicino. La regia è pulita e giocata tutto sul patinato mondo della moda, ricordando molto da vicino le pubblicità dei profumi o degli abiti di lusso; il che non è un male a priori. Non sbaglia chi ha visto nelle scene un richiamo a Tom Ford ed al suo “A single Man”: si tratta in entrambi i casi di due film stilisticamente perfetti, dove niente è lasciato al caso ed ogni piccolo dettaglio è studiato nei minimi particolari. Madonna poi si concede anche il lusso di portare lo spettatore a ricordare il miglior cinema di Wong Kar-wai, soprattutto nelle lunghe sequenze in cui i personaggi camminano e sono seguiti di spalle dalla camera da presa accompagnati da una struggente musica. Tra le pecche del film si nota una certa ridondanza in certe scene, che rischiano di far apparire il film troppo manieristico per i palati più raffinati. Certo è che rimane un ottimo lavoro, godibile per gli occhi, grazie alla strepitosa fotografia, e piacevole anche nel modo in cui è raccontato: un biopic assolutamente sopra le righe.

lunedì 4 luglio 2011

2046: RECENSIONE

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Con “2046” il regista Wong Kar-wai realizza finalmente un suo sogno: dirigere un dittico di film. Dopo la strabiliante prova di “In the mood for love”, la naturale conclusione è “2046”, che si accosta al predecessore con la stessa musicalità con cui si finalizza un accordo di settima. 

Siamo nel 1966 e Cho Mo Wan ha lasciato Hong Kong per Singapore, dove sta cercando di scrivere il suo romanzo ambientato nel 2046, che è anche il numero della stanza dove si incontrava con la signora Chan. In questo manoscritto inserisce tutte le sue passioni, i suoi ricordi e soprattutto le tre donne che hanno inesorabilmente finito per condizionare la sua esistenza. 

Wong Kar-wai stavolta realizza un lavoro epico, kolossale, che raccoglie come una opera omnia tutto quello che ha caratterizzato la sua filmografia. Intanto regala allo spettatore le meravigliose interpretazioni dei più grandi attori cinesi viventi, che non hanno nulla da invidiare ai divi hollywoodiani; ma allo stesso tempo, abbandonando il romanticismo, dona degli spinti di riflessione sulla natura dell’uomo, in un universo più cinico e disincantato. 

Un film che racconta la ricerca del passato e l’importanza della memoria nel presente, lanciando sempre un occhio a ciò che il futuro può regalare all’individuo. L’inizio della pellicola, decalogo del buon cinema degli effetti speciali, fa entrare perfettamente lo spettatore nell’atmosfera delicata e malinconia di “2046”, concludendo al meglio “In the mood for love” e aprendo uno spiraglio verso una nuova narrazione.

mercoledì 8 giugno 2011

IN THE MOOD FOR LOVE: RECENSIONE

Postato anche su FILM4LIFE... mi dispiace solo di non essere riuscito a scrivere di meglio su uno dei miei film preferiti in assoluto... 


Esistono pellicole difficili da raccontare. Esistono pellicole impossibili da raccontare. Esistono pellicole per cui le parole sono solo superflue. Esistono pellicole che vanno solo viste. E questo è il caso di “In the Mood for Love”, di Wong Kar-wai, uno dei film più belli che il continente asiatico abbia regalato all’umanità. Delicato, etereo, sfuggente, “In the Mood for Love” potrebbe essere considerato a ragione un patrimonio della nostra cultura, qualcosa da salvare e da far conoscere ai posteri. 

Il regista, dopo la parentesi estera con “Happy Together”, ritorna a casa, nella sua Hong Kong nell’anno 1963, per raccontare una storia d’amore impossibile tra due vicini di casa il signor Chow e la signora Chan, che hanno scoperto che i loro rispettivi coniugi sono amanti. Tra i due si instaura un sentimento d’amore che però non trova mai né un inizio né una fine. Del resto la poesia del titolo riassume, già di per sé, tutta la narrazione. Quell’ “in the mood for” – che possiamo tradurre come “avere l’animo predisposto a” – è un sentimento filosofico profondo, che il regista ha quasi sempre raccontato nei suoi film, ma che qui è elevato all’ennesima potenza. La musica, le parole e le ripetitive azioni si fondono alla perfezione, raccontando con eleganza temperata una vicenda “banale”, resa al contempo geniale. 

Quello che colpisce è la differenza rispetto a tutti gli altri film del regista. Quello che si ha di fronte è un Wong Kar-wai maturo, che non deve più stupire il suo spettatore, ma può concentrarsi su una storia semplice e lineare per scandagliare i sentimenti umani e raccontare la politica cinese di quegli anni così difficili. 

Per realizzare questo capolavoro, il regista, che affida l’impeccabile fotografia ancora una volta a Chrystopher Doyle, ha dovuto aspettare parecchi anni. È dovuto crescere stilisticamente e registicamente, ma soprattutto ha dovuto e saputo aspettare i suoi attori, quelli che lo hanno accompagnato fin dalle origini del suo cinema, trasformandoli in quei cigni che tutto il mondo invidia alla Cina. Tony Leung (Palma d’Oro a Cannes) e Maggie Cheung con la loro sobria fisicità trasmettono tutti i sentimenti che i loro tormentati personaggi vivono: basta uno sguardo, un gesto per mostrare un cinema fatto d’azione e con poche spiegazioni. Insomma un capolavoro da non perdere, da rivedere milioni di volte. 

Curiosità: Non ci crederete ma esiste un titolo italiano anche per questo film: “Gli amanti tristi”, che però ringraziando il cielo non è mai stato utilizzato.  

giovedì 2 giugno 2011

HAPPY TOGETHER: RECENSIONE

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“Happy Together” è il primo film che Wong Kar-wai gira fuori dalle mura amiche di Hong Kong. La storia si svolge proprio agli antipodi dell’amata patria, in Argentina, come agli antipodi sono i due protagonisti: due giovani omosessuali, innamorati ma perennemente in conflitto perché troppo diversi tra loro. 

Come in ogni film di Wong Kar-wai che si rispetti, anche in “Happy Together”, l’amore è infelice e tormentato, correlato dai temi cari al regista: la nostalgia, l’esilio, il senso di alienazione, che questi due ragazzi cinesi, in un contesto totalmente diverso dal loro luogo d’origine, vivono moltiplicato all’infinito rispetto agli altri personaggi finora messi sotto l’occhio delle telecamere del regista. 

La pellicola è tutta giocata proprio sul senso di rottura, della rinuncia e soprattutto del conflitto; conflitto che è ben visibile già dalla fotografia, curata dal fedele Christopher Doyle. Si passa con disinvoltura dal bianco e nero ai toni seppia, per poi giungere alla luci al neon della madre patria fino al lussureggianti acqua delle cascate di Iguazu. Certo questo conflitto si percepisce anche nelle musiche, che spaziano dai Beatles, omaggiati fin dal titolo, ai tanghi argentini più suadenti. Però sono i personaggi con i loro ambigui comportamenti a dare allo spettatore un senso di lotta continua, una vita senza pace, sempre alla ricerca di qualcosa che non si sa bene che cos’è. 

Pur mettendo in scena un amore omosessuale, il regista non indugia troppo su questo aspetto. In realtà avrebbe potuto utilizzare tranquillamente una coppia eterosessuale per raccontare questa storia, ma la voglia di avere insieme i suoi attori feticci Leslie Cheung e Tony Leung ha avuto il sopravvento. Del resto gay o no, i protagonisti sono inappagati e insoddisfatti dalla vita, quindi, anche “Happy Together” si ricollega ai leit motiv della filmografia wongkarwaiana. Questo lavoro non è che un altro tassello nel puzzle sui sentimenti umani che l’autore cinese, con tanta maestria riesce a raccontare, scagliando l’animo di chi assiste a narrazioni così sublimi. 

Il film ha vinto il premio alla regia a Cannes nel 1997 e, non si capisce bene per qualche astruso motivo, è stato vietato ai minori di diciotto anni in Italia. Ovviamente vogliamo credere che non sia per le caste scene di sesso omoerotiche o i dialoghi troppo spinti. Comunque “Happy Together” è il preludio per il capolavoro che Wong Kar-wai realizzerà ad inizio millennio: “In the Mood for Love”.

lunedì 23 maggio 2011

ANGELI PERDUTI: RECENSIONE

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Gli angeli, del regista Wong Kar-wai, sono caduti dal cielo, ma in italiano, come sempre, si è preferito banalizzare il tutto con un bel “perduti”. E così il titolo “Fallen Angels” dell’inglese e il cinese 堕落天使 si trasforma in perduti per i traduttori italiani. Perduti dove? Per la splendida, calda e rigorosamente notturna città di Hong Kong, uno degli amori più grandi del regista cinese. 


Nell’angusta e cotica città si intrecciano due storie parallele: il rapporto tra il killer Ming e la sua partner Agent, innamorata dell’uomo, e le tragicomiche avventure di un muto che cerca disperatamente l’amore. La pellicola, per il modo in cui è strutturata, ricorda “Hong Kong Express”, soprattutto nei rimandi ai comportamenti dei personaggi dei due film. Effettivamente le storie di “Angeli perduti”, dovevano essere il terzo capitolo di “Hong Kong Express”, anche se poi il regista ha preferito ampliarle e renderle un’opera a sé, trasformando il tutto in un’antitetica versione del film precedente. 

Sfacciato, spudorato e sensuale, “Angeli perduti” trasuda pathos ed eros in ogni inquadratura, in ogni scena, realizzate attraverso un uso eccessivo del grandangolo, della camera a spalla e l’immancabile step-freming. 

Certo la bellezza del film non si limita solo alla parte tecnica. Il tema principale di fondo resta l’incomunicabilità: l’uomo moderno che non riesce a rapportarsi con i suoi simili, che non riesce a esprimere i propri sentimenti, nella solitudine della megalopoli. 

Siamo nel 1995 e Wong Kar-wai è ormai un autore maturo, con un suo stile inconfondibile e una poetica dei sentimenti umani, che in pochi sanno raccontare con la stessa delicatezza.

venerdì 6 maggio 2011

HONG KONG EXPRESS: RECENSIONE

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Quarta pellicola di Wong Kar-wai, “Hong Kong Express” è la perla con la quale il cineasta cinese si presenta al mondo. Semisconosciuto fino al 1994, con questo film il regista si fa conoscere al grande pubblico d’Occidente, regalando al Cinema una summa della sua filosofia sull’uomo moderno, attraverso i topòi che hanno sempre accompagnato la sua filmografia. 



Questa pellicola nasce durante una lunga pausa delle riprese del travagliato “Ashes of Time" senza una sceneggiatura ben precisa e solo con l’ausilio di una semplice camera a spalla: anche perché quando un autore parla al cuore dei sentimenti umani non ha bisogno di utilizzare (inutili) effetti speciali. Eppure qualche tecnica per alienare i suoi personaggi, nella caotica, colorata al neon, sudata e lussureggiante Hong Kong, il regista la trova: ad esempio congelando i suoi protagonisti, lasciandoli soli ed immersi nei loro pensieri, mostrando un mondo che attorno a loro si muove in fretta, veloce, illogicamente. 

Come nel primo lavoro, “As tears go by”, le due storie, che si intrecciano in modo debole ma delicato, hanno come personaggi principali due poliziotti (Tony Leung e Takeshi Kaneshiro) e le loro possibili amanti (Faye Wong e Brigitte Lin), con l’amore, come unico fulcro comune delle due storie; amore appena consumato, che rimane un sogno da concludere e mai consumato fino in fondo. Ciò che riesce a creare il regista è una sensazione di malinconico dolore nella nevrosi cittadina, a cui i quattro personaggi non riescono a dare sfogo, se non nella loro intimità e con le loro maniacali abitudini. 

Grande importanza è data, come sempre, alla colonna sonora. Il desiderio di un sogno americano, che alla fine andrà deluso, sono affidate a California Dreamin’ dei Mamas & Papas, ma come in “Days of Being Wild” il regista riadatta le suggestioni occidentali, concedendosi una versione cinese di una canzone all’epoca popolarissima: Dream dei Cramberries, re-interpretata da Faye Wong. È superfluo elogiare la sempre perfetta fotografia di Christopher Doyle, qui affiancato da Keung Lau Wei. 

La passione per il finale aperto, a cui il regista ha abituato i suoi spettatori, è presente, ancora una volta a sottolineare l’indeterminatezza della condizione umana. Ma con questo film Wong Kar-wai si spinge oltre. Addirittura accenna in “Hong Kong Express” la storia che racconterà nel suo seguente film: “Angeli perduti”

giovedì 5 maggio 2011

ASHES OF TIME (REDUX): RECENSIONE

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La versione originale di "Ashes of Time" del 1994, non ha mai trovato una distribuzione sul mercato occidentale per gli scadenti risultati economici in patria ed è andato perduto (o fatto sparire da Wong Kar-wai dalla circolazione, se vogliamo essere un po’ maligni). Ritrovato e rivisitato, il regista cinese ci ha regalato questa versione REDUX, distribuita in Italia dalla BIM, solo in DVD. 

In “Ashes of Time”, Wong Kar-Wai si confronta con il genere del wuxiapian, genere cinematografico cinese, in cui si raccontano vicende di personaggi ed eroi epici con combattimenti volanti e corse a cavallo. La versione “riduzione” del resto ha trovato nuova linfa vitale semplicemente perché questo genere, poco noto negli anni Novanta, è esploso al botteghino USA ad inizio millennio con “La tigre e il dragone”. Come dice l’appellativo dato al film, in questo nuovo adattamento, il regista ha lavorato per decurtazione, limando le scene e non, come magari ci si aspetta da una rivisitazione, aggiungendo parti. 

In una mitologica era, si intrecciano attorno al personaggio dell’eremita Ou-yang Feng tre storie, tenute insieme tra loro, come solo i grandi maestri del cinema sanno fare. Feng vive nel deserto e ogni anno riceve la visita di Huang, uno spadaccino che ha scoperto un particolare vino che cancella la memoria. Huang in passato ha incontrato Yang, a cui ha promesso di sposare sua sorella Yin, ma l’uomo ha infranto la promessa, e Yin assume Feng per ucciderlo. Dall'altra parte Yang assume Feng per uccidere proprio Huang, colpevole di non aver mantenuto la parola data. 

Il regista, anche in questo film, ripropone la sua visione del mondo, in cui “errare è umano”, dove l’amore puro è quello contrastato e irrealizzabile e la sete di vendetta alimenta le speranze. Un ruolo fondamentale lo ricoprono i ricordi e i rimpianti: vere e proprie ossessioni dei personaggi, che nemmeno il pensiero buddista, sbandierato fin dall’inizio della pellicola, riesce a calmare il cuore in tempesta dei protagonisti. 

Lavorando a posteriori, il regista affiancato dal fedele direttore della fotografia Christopher Doyle, con cui ha collaborato già in “Days of Being Wild”, mostra un mondo saturo di colori con forti contrasti cromatici, per sottolineare l’assoluta a-temporalità dell’azione. Il montaggio è serrato, come un battito cardiaco e le sequenze d’azione, rispetto all’originale e agli altri wuxiapian, sono meno spettacolari e più veloci, quasi solo accennate, accompagnate però dalla solita scelta accurata della colonna sonora.

domenica 17 aprile 2011

DAYS OF BEING WILD: RECENSIONE

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Con “Days of Being Wild”, Wong Kar-wai si allontana definitivamente dalla influenza e dalle suggestioni del cinema di Hong Kong, di cui aveva dato prova nel suo primo lungometraggio “As Tears Go By”, dove era riusciuto a mescolare magistralmente action e melò. Affiancato dal suo fedele direttore della fotografia, Christopher Doyle, con questo lavoro il regista comincia a costruire e a dare forma a quello stile che lo renderà inconfondibile negli anni successivi. 

In “Days of Being Wild” assistiamo alle vicende intrecciate di quattro personaggi nella Hong Kong degli anni ’60. Il perno dell’azione ruota intorno all’amore, già, nella visione poetica del regista, irrealizzabile, sfuggevole e, per certi versi, solo platonico; un amore che tanto più è smisurato, tanto più non trova un epilogo felice. Yuddi (Leslie Cheung) è un dongiovanni insensibile, cresciuto da una prostituta perché abbandonato dai genitori quando era piccolo. Riesce a far innamorare di lui due bellissime ragazze: Su Li-Zhen (Maggie Cheung), un’ingenua cassiera e Mimì (Carina Lau), ballerina dai facili costumi. A questi protagonisti si aggiunge un ex poliziotto (Andy Lau) alla ricerca di se stesso che incontrerà i vari personaggi in momenti diversi della loro vita. 

Il giovane ed inesperto Wong Kar-wai (il film è del 1991) non riesce ancora a realizzare una pellicola sublime. Tante le pecche di questo film, che saranno poi praticamente azzerate nelle opere (d’arte) successive. In questo momento, sono ancora troppo eccessivi i momenti di pathos melenso e i sentimenti d’amore esagerati, addirittura isterici, dei vari personaggi. Certo si cominciano a notare con più chiarezza i tòpoi della filmografia che verrà: quel senso di disperazione quotidiana, di inadeguatezza, di perenne insoddisfazione e di continua sospensione, si realizza attraverso le immagini dei dettagli, nelle inquadrature che sviscerano l’anima accompagnate da una musica dolce, ma indagatrice, in una visione onirica del mondo e dei sentimenti dell’umanità. 

“Days of Being Wild” avrebbe dovuto avere un seguito, come quasi tutti i progetti nati dalla mente di Wong Kar-wai. Gli scarsi incassi al botteghino non hanno permesso al regista di affrontare un sequel, come sembrerebbero presumere le ultime inquadrature del film. Certo è che questa pellicola è la prova generale, con i suoi personaggi e le sue ambientazioni, per “In the Mood for Love”, che vedrà la luce solo dieci anni più tardi.

lunedì 11 aprile 2011

AS TEARS GO BY: RECENSIONE

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Anche i grandi registi hanno dovuto affrontare l’ostacolo dell’opera prima. Wong Kar-wai nell’anno 1988 approda al cinema con “As Tears Go By”, mostrando al mondo il suo talento. Si presenta così, con un’opera che risente della new wave orientale, uno dei registi che hanno rinnovato il cinema cinese. Wong Kar-wai si dedica sin dal suo primo lungometraggio, alla sperimentazione e all’innovazione del linguaggio cinematografico, pur mantenendo sempre nelle sue opere quel distinguibile taglio classico cinese. 

“As Tears Go By”è un racconto appassionato sui bassi-fondi di Hong Kong degli anni ’80, dove si svolge la storia di Ah Wah, un “Big Brother”, interpretato da Andy Lau, che deve difendere suo fratello (Jacky Cheung), il quale non sa tenersi lontano dai guai. Ah Wah non desidera salire la scala gerarchica della malavita organizzata e quando incontra la donna della sua vita, sua cugina, decide che è il momento di cambiare. 

La trama ricalca in toto, come si può ben capire, i cliclè e gli stereotipi del gangster movie. L’opera prima del regista cinese è però un mix di generi, dato che ha il pregio di mescolare il cinema popolare di Hong Kong, con le più moderne opere americane. Del resto è impossibile non considerarlo una sorta di remake con gli occhi a mandorla del capolavoro di Martin Scorsese, “Mean Streets”, anche se, giustamente, manca in “As Tears Go By” quel senso di colpa cristiano che pervade la pellicola di Scorsese. 

Eppure, nonostante il film non sia il capolavoro di Wong Kar-wai (quelli arriveranno molti anni dopo), sono già presenti in piccolo tutte le caratteristiche del suo cinema maturo, quelle che ad inizio millennio lo consacreranno come uno degli autori del nostro tempo. Già nel modo di raccontare la storia si capiscono le peculiarità del regista. I personaggi sono al centro dell’universo, mentre la vicenda è solo un pretesto per entrare in contatto con l’animo e i sentimenti universali dell’umanità. Del resto, nel cinema di Wong Kar-wai tutto è assoggettato al Fato a cui, prima o poi, bisogna saldare il conto; dunque i protagonisti non scelgono come agire, ma sono quasi costretti a comportarsi in un determinato modo. 

Tra le caratteristiche di questo film c’è l’esperimento di proporre il videoclip di MTV, nato proprio negli anni ’80, al cinema, accentuando le luci al neon e i rallenty, che poi il regista riprenderà con più effetto nei due film che seguiranno (“Days of Being Wild” e “Hong Kong Express”). È però nelle inquadrature dei particolari, degli sguardi, nei movimenti lenti e sempre delicati delle donne, che Wong Kar-wai si fa riconoscere anche in questo primo lavoro, in cui il genio è ancora grezzo, e la poetica è ancora centellinata. 

Un altro tratto distintivo del cinema del cineasta è la scelta della colonna sonora. Anche in questo caso il richiamo alla lontana America è rievocato attraverso una cover di “Take My Breath Away”, con Andy Lau ad interpretare un moderno “Top Gun” cinese. Il risultato infine è un lavoro che racconta in modo ironico, ma assolutamente lirico, le imperfezioni e le brutture della società.


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