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venerdì 6 maggio 2011

HONG KONG EXPRESS: RECENSIONE

Postato anche su Film4life...

Quarta pellicola di Wong Kar-wai, “Hong Kong Express” è la perla con la quale il cineasta cinese si presenta al mondo. Semisconosciuto fino al 1994, con questo film il regista si fa conoscere al grande pubblico d’Occidente, regalando al Cinema una summa della sua filosofia sull’uomo moderno, attraverso i topòi che hanno sempre accompagnato la sua filmografia. 



Questa pellicola nasce durante una lunga pausa delle riprese del travagliato “Ashes of Time" senza una sceneggiatura ben precisa e solo con l’ausilio di una semplice camera a spalla: anche perché quando un autore parla al cuore dei sentimenti umani non ha bisogno di utilizzare (inutili) effetti speciali. Eppure qualche tecnica per alienare i suoi personaggi, nella caotica, colorata al neon, sudata e lussureggiante Hong Kong, il regista la trova: ad esempio congelando i suoi protagonisti, lasciandoli soli ed immersi nei loro pensieri, mostrando un mondo che attorno a loro si muove in fretta, veloce, illogicamente. 

Come nel primo lavoro, “As tears go by”, le due storie, che si intrecciano in modo debole ma delicato, hanno come personaggi principali due poliziotti (Tony Leung e Takeshi Kaneshiro) e le loro possibili amanti (Faye Wong e Brigitte Lin), con l’amore, come unico fulcro comune delle due storie; amore appena consumato, che rimane un sogno da concludere e mai consumato fino in fondo. Ciò che riesce a creare il regista è una sensazione di malinconico dolore nella nevrosi cittadina, a cui i quattro personaggi non riescono a dare sfogo, se non nella loro intimità e con le loro maniacali abitudini. 

Grande importanza è data, come sempre, alla colonna sonora. Il desiderio di un sogno americano, che alla fine andrà deluso, sono affidate a California Dreamin’ dei Mamas & Papas, ma come in “Days of Being Wild” il regista riadatta le suggestioni occidentali, concedendosi una versione cinese di una canzone all’epoca popolarissima: Dream dei Cramberries, re-interpretata da Faye Wong. È superfluo elogiare la sempre perfetta fotografia di Christopher Doyle, qui affiancato da Keung Lau Wei. 

La passione per il finale aperto, a cui il regista ha abituato i suoi spettatori, è presente, ancora una volta a sottolineare l’indeterminatezza della condizione umana. Ma con questo film Wong Kar-wai si spinge oltre. Addirittura accenna in “Hong Kong Express” la storia che racconterà nel suo seguente film: “Angeli perduti”

giovedì 5 maggio 2011

ASHES OF TIME (REDUX): RECENSIONE

Postato anche su Film4Life...

La versione originale di "Ashes of Time" del 1994, non ha mai trovato una distribuzione sul mercato occidentale per gli scadenti risultati economici in patria ed è andato perduto (o fatto sparire da Wong Kar-wai dalla circolazione, se vogliamo essere un po’ maligni). Ritrovato e rivisitato, il regista cinese ci ha regalato questa versione REDUX, distribuita in Italia dalla BIM, solo in DVD. 

In “Ashes of Time”, Wong Kar-Wai si confronta con il genere del wuxiapian, genere cinematografico cinese, in cui si raccontano vicende di personaggi ed eroi epici con combattimenti volanti e corse a cavallo. La versione “riduzione” del resto ha trovato nuova linfa vitale semplicemente perché questo genere, poco noto negli anni Novanta, è esploso al botteghino USA ad inizio millennio con “La tigre e il dragone”. Come dice l’appellativo dato al film, in questo nuovo adattamento, il regista ha lavorato per decurtazione, limando le scene e non, come magari ci si aspetta da una rivisitazione, aggiungendo parti. 

In una mitologica era, si intrecciano attorno al personaggio dell’eremita Ou-yang Feng tre storie, tenute insieme tra loro, come solo i grandi maestri del cinema sanno fare. Feng vive nel deserto e ogni anno riceve la visita di Huang, uno spadaccino che ha scoperto un particolare vino che cancella la memoria. Huang in passato ha incontrato Yang, a cui ha promesso di sposare sua sorella Yin, ma l’uomo ha infranto la promessa, e Yin assume Feng per ucciderlo. Dall'altra parte Yang assume Feng per uccidere proprio Huang, colpevole di non aver mantenuto la parola data. 

Il regista, anche in questo film, ripropone la sua visione del mondo, in cui “errare è umano”, dove l’amore puro è quello contrastato e irrealizzabile e la sete di vendetta alimenta le speranze. Un ruolo fondamentale lo ricoprono i ricordi e i rimpianti: vere e proprie ossessioni dei personaggi, che nemmeno il pensiero buddista, sbandierato fin dall’inizio della pellicola, riesce a calmare il cuore in tempesta dei protagonisti. 

Lavorando a posteriori, il regista affiancato dal fedele direttore della fotografia Christopher Doyle, con cui ha collaborato già in “Days of Being Wild”, mostra un mondo saturo di colori con forti contrasti cromatici, per sottolineare l’assoluta a-temporalità dell’azione. Il montaggio è serrato, come un battito cardiaco e le sequenze d’azione, rispetto all’originale e agli altri wuxiapian, sono meno spettacolari e più veloci, quasi solo accennate, accompagnate però dalla solita scelta accurata della colonna sonora.

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