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mercoledì 1 agosto 2012

ROMAN POLANSKI, A FILM MEMOIR: RECENSIONE


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Finito il film, “Roman Polanski: a film memoir”, quello a cui si pensa è molto semplice: “Nel bene o nel male: che vita straordinaria!” E sì, perché Roman Polanski, volente o nolente, ha davvero vissuto una vita fuori dal comune, che ha inevitabilmente condizionato anche il suo modo di fare cinema e di approcciarsi alla settima arte. Il documentario inizia proprio nel momento in cui Roman Polanski viene arrestato in Svizzera nel 2010, mentre si stava recando al Festival di Zurigo per ritirare un premio. L’arresto, come sapete, è avvenuto per un fatto del 1977, quando il regista confessò alle autorità di aver fatto sesso con una minorenne. Da allora, nonostante la galera negli States durante gli anni ’70, Polanski non ha più potuto mettere piede nel paese a stelle e strisce e vive in esilio in Europa.

In “Roman Polanski: a film memoir” il regista si racconta in una lunga intervista, intervallata da spezzoni dei suoi film, fotografie di famiglia e video storici della seconda guerra mondiale, all’amico Andrei Brausberg, nella usa casa di Gstaad dove per 8 mesi è rimasto agli arresti domiciliari. Il documentario ovviamente celebra la figura del regista, ripercorrendo tutta la sua esistenza, dalla drammatica infanzia, vissuta nel ghetto di Cracovia sotto il dominio nazista, alle prime partecipazioni nei film, fino alle tragedie personali, come la morte della moglie per mano di uno squilibrato o la condanna per lo stupro della minorenne; il tutto ovviamente raccontato delle curiosità su come sono nate molte scene delle sue opere, quasi tutte nate da fatti realmente accaduti.

Il film è quello è: ovvero una sorta di celebrazione pre-morte, di un uomo che ha dato tanto al cinema e che ha pagato caro il prezzo della popolarità dato che ha vissuto sempre sotto la luce dei flash dei paparazzi. Certo “Roman Polanski: a film memoir” è anche un capo d’accusa contro chi “si accanisce” ancora contro il regista; spesso con ironia e battute sagaci infatti si coglie il risentimento di un uomo che si sente perseguitato.

CARNAGE: RECENSIONE

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Roman Polanski non è in quel di Venezia, ma il suo ultimo film è finora uno dei migliori lavori visti qui in Laguna e, esagerando, è il migliore per quanto riguarda i film in concorso, ma siamo ancora all’inizio del Festial. Due coppie della borghesia americana si incontrano per discutere di una banale lite tra i loro figli undicenni. Questa è in breve la trama del film che serve da pretesto a “Carnage” per mostrare fin dove si spingono le ipocrisie ed il perbenismo borghese e quanto sia semplice abbattere questo muro di menzogne. 

Tratto dalla pièce teatrale di Yasmina Reza, Polanski si trova decisamente a proprio agio nel portare sul grande schermo una storia ambientata in un unico luogo, come già aveva fatto in “Rosemary’s baby”. La claustrofobia dell’unico set è l’ allegoria perfetta per scandagliare a fondo l’anima dei quattro protagonisti. Il film è quasi tutto fatto dalla splendida sceneggiatura: tanti dialoghi, a tratti surreali, che riescono a mettere i luce i caratteri dei personaggi, regalando allo spettatore spunti di riflessione e ironiche risate. Si prova quasi il sentimento di trovarsi di fronte ad una commedia del teatro dell’assurdo o di fronte ad un film di Bunuel, soprattutto per l’impossibilità dei protagonisti di poter lasciare alle proprie spalle quell’appartamento, come se ci fosse una forza oscura che li tenga obbligatoriamente insieme, nonostante la poca “simpatia” l’uno dell’altro. 

Niente da dir sulla bravura degli attori: del resto per realizzare una pellicola di circa 80 minuti, dove non succede quasi nulla, è necessario poter contare su di un cast d’eccezione: Kate Winslet, Jodie Foster, Christopher Waltz e John C. Reilly, tutti e quattro papabili per la vittoria della coppa Volpi. Un film godibile, con un finale anche fin troppo speranzoso sulle sorti del mondo. 

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