martedì 9 novembre 2010

IL TEMPO CHE CI RIMANE: RECENSIONE


Ogni guerra ha la sua… quotidianità! Figurarsi un conflitto come quello israelo-palestinese che dura praticamente da sempre. È questo il concetto base dell’ultimo lavoro di Elia Suleiman “Il tempo che ci rimane”, presentato in concorso al 62esimo Festival di Cannes. La pellicola semiautobiografica, basata soprattutto sui diari del padre del regista, segue le vicende della famiglia Suleiman in quattro distinti episodi, tutti facilmente ricollegabili, dal 1948 con la resa della città di Nazareth, fino ai giorni nostri. Elia Suleiman però non ci racconta la diaspora dello stato di Israele, ma ci porta dentro le case di quelli che furono etichettati come “Arabi Israeliani”, quei palestinesi che non abbandonarono la loro terra e che continuano ancora oggi a vivere come stranieri nella loro stessa patria. Il racconto è fatto di episodi che si ripetono sempre uguali nella vita di ogni giorno: come bere il solito caffé al bar, la chiacchierata con gli amici, le discussioni tra vicini, la pesca notturna; fatti consueti che ci fanno capire come si possa vivere discretamente in una situazione in cui si è sempre in bilico. La routine con una guerra praticamente sotto la finestra della cucina può avere anche i suoi risvolti “comici” e simpatici, trasformando i fatti più sconvolgenti in un’occasione per… ballare. La pellicola in alcuni punti è davvero divertente, anche se la politica è raccontata solo attraverso le immagini di una televisione accesa, che nessuno guarda. Non c’è una lezione da imparare guardando questo film, c’è solo da ammirare come due popoli con-vivono nonostante la (becera) politica mondiale non riesca a trovare una giusta soluzione. Sono presenti molti tratti caratteristici della poetica cinematografica di Suleiman come il nonsense e la voglia di trovare l’ironia in tutte le cose. Nel film ci sono delle situazioni comiche che, a pensare accadano realmente, fanno spuntare sulle labbra un sorriso amaro, ma assolutamente divertito: basti immaginare il cannone di un carro armato che vi segue anche se state parlando al cellulare. Un protagonista assoluto della pellicola è il silenzio, il silenzio che il regista ha sempre portato con sé nei suoi film, perché considerato meravigliosamente sovversivo. Tutto il rapporto tra Elia Suleiman (che nell’ultimo episodio si concede il lusso di recitare, interpretando se stesso) e la madre è fatto solo di gesti e sguardi. Il livello di sceneggiatura ovviamente è altissimo e compie un ottimo lavoro su tutti i protagonisti. I personaggi cambiano infatti attraverso i decenni, ma mutare è anche e soprattutto il mondo intorno a loro: del resto se i soldati israeliani del 1948 sparano, quelli del 2009 davanti ad una discoteca danno il coprifuoco a ritmo di musica house. E Suleiman non interagisce, ma dall’alto del suo silenzio osserva, azzardando una soluzione: un salto con l’asta per superare quel maledetto (!) muro, di cui è meglio non parlare! Infine come non apprezzare gli attori? Praticamente sconosciuti a noi occidentali, ma che meritano davvero il giusto riconoscimento. Senza continuare ad elogiare l’interpretazione di Elia Suleiman, altrettanto intensa è la prova di Saleh Fuqua, che interpreta il padre di Elia, che porta nei suoi grandi occhi azzurri tutto il dolore che questa guerra ha causato nella vita dei cittadini comuni. Applausi a scena aperta anche per Ayman Espanioli e Samar Qudha Tanus, attori per cui ci si può solo augurare un meritato riconoscimento internazionale. Un film assolutamente da consigliare attraverso il passaparola: per ridere col cervello!

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