giovedì 11 novembre 2010

RABBIT HOLE: RECENSIONE

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Qual è la più grande maledizione che può abbattersi su una giovane famiglia da spot pubblicitario? Risposta agghiacciante: la morte dell’unico figlio. Il regista John Cameron Mitchell affronta proprio questo dramma nel suo ultimo lavoro: “Rabbit Hole”, presentato in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma 2010. Adattamento dell’omonima pièce teatrale vincitrice del Premio Pulitzer di David Lindsay-Abaire, il film è un’esplosione di sentimenti drammatici, in cui i protagonisti, interagendo sempre a coppie, creano dinamiche di intenso dolore. Come si può elaborare questo tragico lutto? La famiglia Corbett deve riuscire a otto mesi di distanza a superare (ma si può superare!) questa disgrazia familiare? Il regista perde ogni tanto il filo del discorso, indugiando ad esempio su un rapporto un po’ perverso tra Nicole Kidman (la protagonista femminile, anche produttrice) ed un misterioso ragazzo, anche se si capisce da subito chi sia e la narrazione attenda molto a spiegarlo. Mitchell comunque, in perfetto stile con la sua filmografia, decide di continuare a scandagliare l’animo umano, coinvolgendo lo spettatore in un’esperienza che non scade mai nel ridicolo o in qualche banale luogo comune. La pellicola ci restituisce una Kidman in splendida forma, dopo le debacle degli ultimi anni, affiancata da un Eckhart, che si scopre padre e marito capace di contrastare la sofferenza. Rabbit Hole è in definita da consigliare a chi ama i drammoni familiari.

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