mercoledì 27 aprile 2011

LA PASSIONE DI CRISTO: RECENSIONE

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“La passione di Cristo”, film di Mel Gibson con Jim Caviezel, è ormai acqua passata, il clamore del 2003 è finito, anche se il film continua a far parlare di sé ogni qualvolta qualche rete televisiva (quest’anno La7) decide presentarlo al pubblico del piccolo schermo. 

Dall’arresto nell’orto degli ulivi, fino alla crocifissione, Mel Gibson racconta con realismo, in una cruda rappresentazione, gli ultimi momenti terreni di Gesù Cristo. Il film ovviamente suscita scalpore per la violenza e la (quasi) compiaciuta crudeltà con cui è mostrato ogni momento del martirio terreno di un uomo, per raccontare, in una sorta di documentario storico, come si moriva al tempo dei romani. 

In una produzione italo-americana, come non se ne vedevano dai tempi d’oro dei teatri di cinema di Cinecittà a Roma negli anni ’50 e ’60, Mel Gibson sceglie Jim Caviezel nella parte di Cristo, affiancandogli attori ed attrici italiane che se la cavano benissimo con le due lingue principali della pellicola: il latino e l’aramaico. Infatti non è certamente una curiosità sapere che il film è stato girato nelle lingue originali dell’epoca, ma non preoccupatevi perché ci sono i sottotitoli. 

Quello che manca a “La passione di Cristo” è un ampio respiro poetico, limitato proprio dalla ferocia con cui è mostrata la via crucis. Nemmeno i pochi flashblack inseriti, che forse avrebbero dovuto avere il plauso di mostrare la quotidianità dell’uomo Gesù, e le demoniache apparizioni, interpretate magistralmente da Rosalinda Celentano, trovano una loro precisa collocazione nell’opera, evitando però di far diventare questo film una riflessione religiosa. Non è nell’intento di Gibson accusare gli ebrei o demolire le certezze della religione cattolica. È tutto talmente esasperato che si capisce che quello a cui si sta assistendo è finzione, che indugia più sull’elemento carnale, terreno che su quello morale, divino. 

Il regista vuole solo raccontare una storia, che, se ci è permesso, ha in sé, dal punto di vista della drammaturgia in quanto tale, tutti gli elementi basilari di un’ottima sceneggiatura che si perpetua da secoli.

domenica 17 aprile 2011

DAYS OF BEING WILD: RECENSIONE

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Con “Days of Being Wild”, Wong Kar-wai si allontana definitivamente dalla influenza e dalle suggestioni del cinema di Hong Kong, di cui aveva dato prova nel suo primo lungometraggio “As Tears Go By”, dove era riusciuto a mescolare magistralmente action e melò. Affiancato dal suo fedele direttore della fotografia, Christopher Doyle, con questo lavoro il regista comincia a costruire e a dare forma a quello stile che lo renderà inconfondibile negli anni successivi. 

In “Days of Being Wild” assistiamo alle vicende intrecciate di quattro personaggi nella Hong Kong degli anni ’60. Il perno dell’azione ruota intorno all’amore, già, nella visione poetica del regista, irrealizzabile, sfuggevole e, per certi versi, solo platonico; un amore che tanto più è smisurato, tanto più non trova un epilogo felice. Yuddi (Leslie Cheung) è un dongiovanni insensibile, cresciuto da una prostituta perché abbandonato dai genitori quando era piccolo. Riesce a far innamorare di lui due bellissime ragazze: Su Li-Zhen (Maggie Cheung), un’ingenua cassiera e Mimì (Carina Lau), ballerina dai facili costumi. A questi protagonisti si aggiunge un ex poliziotto (Andy Lau) alla ricerca di se stesso che incontrerà i vari personaggi in momenti diversi della loro vita. 

Il giovane ed inesperto Wong Kar-wai (il film è del 1991) non riesce ancora a realizzare una pellicola sublime. Tante le pecche di questo film, che saranno poi praticamente azzerate nelle opere (d’arte) successive. In questo momento, sono ancora troppo eccessivi i momenti di pathos melenso e i sentimenti d’amore esagerati, addirittura isterici, dei vari personaggi. Certo si cominciano a notare con più chiarezza i tòpoi della filmografia che verrà: quel senso di disperazione quotidiana, di inadeguatezza, di perenne insoddisfazione e di continua sospensione, si realizza attraverso le immagini dei dettagli, nelle inquadrature che sviscerano l’anima accompagnate da una musica dolce, ma indagatrice, in una visione onirica del mondo e dei sentimenti dell’umanità. 

“Days of Being Wild” avrebbe dovuto avere un seguito, come quasi tutti i progetti nati dalla mente di Wong Kar-wai. Gli scarsi incassi al botteghino non hanno permesso al regista di affrontare un sequel, come sembrerebbero presumere le ultime inquadrature del film. Certo è che questa pellicola è la prova generale, con i suoi personaggi e le sue ambientazioni, per “In the Mood for Love”, che vedrà la luce solo dieci anni più tardi.

venerdì 15 aprile 2011

HABEMUS PAPAM: RECENSIONE

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Quando Nanni Moretti decide di mettersi dietro la macchina da presa e di proporre un film al pubblico è sempre e comunque un evento. Testimonianza diretta sono: la partecipazione in concorso al prossimo Festival di Cannes e l’affollatissima presentazione alla stampa di questa mattina di "Habemus Papam", con due sale del cinema Quattro Fontane di Roma stracolme. 

Dopo essersi occupato del potere politico nel suo precedente lavoro, “Il Caimano”, Moretti volge il suo sguardo sull’altra sponda del Tevere, per portare un po’ di luce sul grande mistero del conclave vaticano. Dopo la morte del papa, i signori cardinali devono eleggere un nuovo pontefice. La scelta ricade su Melville, che però, subito dopo la fumata bianca e con i fedeli radunati in Piazza San Pietro in attesa di conoscere il successore di Pietro, è vittima di ansia e depressione, timoroso del ruolo che gli è stato appena affidato. Per questo è chiamato in Vaticano uno psicanalista, anzi il miglior psicoanalista di Roma, che deve cercare di aiutarlo a superare i suoi problemi. 

L’empatia dello spettatore con il papa Michel Piccoli è pressoché immediata, grazie alla straordinaria interpretazione dell’attore che, azzardiamo, è un “papabile” alla Palma d’Oro come Miglior Attore. Del resto la pellicola tratta temi universali come quello dell’inadeguatezza, del sentirsi incapace, della voglia di non essere quello che si è. Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, non si è sentito adatto al ruolo che le circostanze lo hanno portato a ricoprire: quindi perché non ipotizzare che anche un capo di stato, come il papa, non possa avere questi dubbi? Certo in questo caso il regista poteva essere un po’ più coraggioso e criticare apertamente il mondo del potere, non fermandosi ai soliti sproloqui divertenti, ma che nonaggiungono nulla di nuovo a quello che ognuno di noi già sa. 

Era forse dai tempi del “Pap’occhio” comunque che nessuno (al cinema) ficcava il naso con ironia tra gli affari vaticani, Moretti lo fa ma non nel modo critico che ci si aspetti dal signor “La messa è finita” o “Ecce Bombo”. Si ha di fronte un lavoro ben fatto sicuramente che però alla fine indugia di più sulla psicoanalisi che sulla religione e l’anticlericalismo. Diffidate da chi vi dirà: “È dissacrante!”, perché è tutto tranne che una critica alla religione cattolica. 

La pecca più grande è il finale: un po’ troppo scontato ed un’altra scelta di sceneggiatura avrebbe portato “Habemus Papam” a livelli superiori. Resta comunque la miglior pellicola italiana degli ultimi anni.


Tutte le curiosità sul film

CAPPUCCETTO ROSSO SANGUE: RECENSIONE

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Fatta fuori dalla saga di “Twilight”, sostituita dopo il primo capitolo, la regista Catherine Hardwicke cerca di prendersi la sua rivincita personale su Pattinson & Co. con questa rivisitazione di una delle più celebri favole nella storia dell’umanità: Cappuccetto Rosso. Il risultato è un film fotocopia di quei celeberrimi vampiri e lupi mannari, nati dalla penna della (ormai miliardaria) scrittrice Stephenie Meyer. 

Però se “Twilight” aveva il merito (!) di essere un’opera originale (!), almeno tra le teenagers urlanti e adoranti di quattro attorucoli, “Cappuccetto Rosso Sangue”, a parte il meraviglioso titolo scelto, non regge il confronto. Ci sono i bellocci di turno, forse anche molto più belli di Pattinson & Co., ma che non hanno la stessa fama internazionale; magari tra qualche anno i nomi di Shiloh Fernandez e Max Irons scintilleranno sulla Hollywood Walk of Fame: per il momento sono due illustri e aiutanti giovanotti (semi)sconosciuti. 

Ti aspetti un film con un lupo cattivo, una nonna e una bambina impaurita, ti ritrovi a vedere una pellicola in cui della fiaba originale rimane poco o nulla, dove tutto è un pretesto per mostrare la bellezza stilistica di una certa scena, una certa immagine, un certo movimento di capelli della splendida Amanda Seyfried. Alla fine si spera in un po’ di sano sesso, come nel più trash dei film porno: nulla!, e forse con un po’ di becera carnalità si sarebbe salvato questo pasticciaccio. 

Non c’è alcuna psicologia dei personaggi, tanto che - qualora riuscite a rimanere svegli o in sala – vi comincerete a chiedere perché dovete appassionarvi ad un triangolo amoroso stile Twilight che non ha motivo di esistere. Nemmeno il mistero è così interessante, dato che tutti gli “enigmi” si possono tranquillamente risolvere dopo pochi istanti di visione: non aspettatevi geniali trovate di sceneggiatura, perché non ce ne sono. 

Piacerà alle twilighters? Forse, ma non è sicuro, dato che potrebbero sempre dire: “Non c’entra nulla con i nostri amati eroi di Twilight! W il Pattinson originale!”. “Cappuccetto rosso sangue” insomma finirà presto nel dimenticatoio: ce lo auguriamo soprattutto per Catherine Hardwicke, che ha delle indiscusse potenzialità dietro la macchina da presa.

lunedì 11 aprile 2011

AS TEARS GO BY: RECENSIONE

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Anche i grandi registi hanno dovuto affrontare l’ostacolo dell’opera prima. Wong Kar-wai nell’anno 1988 approda al cinema con “As Tears Go By”, mostrando al mondo il suo talento. Si presenta così, con un’opera che risente della new wave orientale, uno dei registi che hanno rinnovato il cinema cinese. Wong Kar-wai si dedica sin dal suo primo lungometraggio, alla sperimentazione e all’innovazione del linguaggio cinematografico, pur mantenendo sempre nelle sue opere quel distinguibile taglio classico cinese. 

“As Tears Go By”è un racconto appassionato sui bassi-fondi di Hong Kong degli anni ’80, dove si svolge la storia di Ah Wah, un “Big Brother”, interpretato da Andy Lau, che deve difendere suo fratello (Jacky Cheung), il quale non sa tenersi lontano dai guai. Ah Wah non desidera salire la scala gerarchica della malavita organizzata e quando incontra la donna della sua vita, sua cugina, decide che è il momento di cambiare. 

La trama ricalca in toto, come si può ben capire, i cliclè e gli stereotipi del gangster movie. L’opera prima del regista cinese è però un mix di generi, dato che ha il pregio di mescolare il cinema popolare di Hong Kong, con le più moderne opere americane. Del resto è impossibile non considerarlo una sorta di remake con gli occhi a mandorla del capolavoro di Martin Scorsese, “Mean Streets”, anche se, giustamente, manca in “As Tears Go By” quel senso di colpa cristiano che pervade la pellicola di Scorsese. 

Eppure, nonostante il film non sia il capolavoro di Wong Kar-wai (quelli arriveranno molti anni dopo), sono già presenti in piccolo tutte le caratteristiche del suo cinema maturo, quelle che ad inizio millennio lo consacreranno come uno degli autori del nostro tempo. Già nel modo di raccontare la storia si capiscono le peculiarità del regista. I personaggi sono al centro dell’universo, mentre la vicenda è solo un pretesto per entrare in contatto con l’animo e i sentimenti universali dell’umanità. Del resto, nel cinema di Wong Kar-wai tutto è assoggettato al Fato a cui, prima o poi, bisogna saldare il conto; dunque i protagonisti non scelgono come agire, ma sono quasi costretti a comportarsi in un determinato modo. 

Tra le caratteristiche di questo film c’è l’esperimento di proporre il videoclip di MTV, nato proprio negli anni ’80, al cinema, accentuando le luci al neon e i rallenty, che poi il regista riprenderà con più effetto nei due film che seguiranno (“Days of Being Wild” e “Hong Kong Express”). È però nelle inquadrature dei particolari, degli sguardi, nei movimenti lenti e sempre delicati delle donne, che Wong Kar-wai si fa riconoscere anche in questo primo lavoro, in cui il genio è ancora grezzo, e la poetica è ancora centellinata. 

Un altro tratto distintivo del cinema del cineasta è la scelta della colonna sonora. Anche in questo caso il richiamo alla lontana America è rievocato attraverso una cover di “Take My Breath Away”, con Andy Lau ad interpretare un moderno “Top Gun” cinese. Il risultato infine è un lavoro che racconta in modo ironico, ma assolutamente lirico, le imperfezioni e le brutture della società.


domenica 10 aprile 2011

LE QUATTRO VOLTE: RECENSIONE

Postata solo qui sul mio blog... Semplicemente perché a ben pensarci (insieme a Diciotto anni dopo) questa è l'unica opera cinematografica degna di nota del 2010 italiano... Voglio anche esprimere così il mio sdegno per i David di Donatello, l'ennesima buffonata del nostro paese...Nomination SCANDALOSE!!!

Il regista Michelangelo Frammartino con il suo lavoro “Le quattro volte” ci ricorda che esiste un altro tipo di vita, un altro tipo di umanità, oltre a quella alienante dell’uomo moderno nelle megalopoli. Il film non è semplice né da guardare, né da digeribile, già solo per il fatto che si assiste a 90 minuti in cui non ci sono dialoghi. Il cinema ritorna con questa poetica e filosofica pellicola alla sua quintessenza, ovvero “racconto per immagini”.

“Le quattro volte” racconta quattro storie, ambientate in un paesino calabro arroccato sulle montagne, che fanno da sfondo all’acuta riflessione di Frammartino sulla vita e sulla morte, sul rapporto tra la natura e l’uomo, tra tradizioni che rimangono immutate nei secoli e luoghi in cui il caotico mondo moderno è rimasto escluso. Quello che il regista milanese ci mostra è un luogo dove ogni giorno si deve lottare per la sopravvivenza, che il protagonista sia un uomo, un animale o una pianta. Un uomo che muore, una capra che nasce, un albero secolare… sono questi i protagonisti del film! In una visione del mondo e della narrazione cinematografica diversa e particolare sia rispetto alle opere di fantasia sia rispetto ai documentari.

Ad accompagnare il nostro sguardo ci sono solo lunghissimi piano sequenza e inquadrature fisse, per quattro storie, legate tra loro da un sottilissimo fil rouge, quasi che ci fosse la mano di un dio benevolo, ma al contempo spietato a dare un senso a quello che si sta guardando. Un’esperienza sensoriale intensa per chi avrà il piacere di ammirare questa piccola opera d’arte popolare.


 “Le Quattro volte” ha vinto l’anno scorso a Cannes l’Europa Cinemas Label ed inoltre Vuk, il fedele cane del pastore, si è portato a casa la Palm Dog 2010, assegnata alla miglior interpretazione canina.

sabato 9 aprile 2011

RIO: RECENSIONE

Postato anche su Film4life... RECENSIONE NUMERO 100!!!



Il regista Carlos Saldanha, dopo i successi della serie de “L’era glaciale”, si sofferma ancora una volta sugli animali umanizzati con “Rio”, trasferendo l’azione nella colorata e musicale città di Rio de Janeiro e la lussureggiante foresta amazzonica. 

Blu è un raro esemplare della sua specie nato in Brasile, ma che per una sfortunata serie di eventi - per colpa dell’avida e senza scrupoli razza umana - si ritrova in una fredda cittadina del Minnesota dove vive con la sua padroncina. Dopo 15 anni scopre che è l’unico pappagallo maschio della sua specie e che, per salvare la sua specie dall’estinzione, deve compiere un viaggio a Rio per conoscere Jewel, unico esemplare femmina. Questo l’incipit di una scontata sceneggiatura. 

Ciò che salta subito agli occhi è la voglia di musical. Un po’ come i film disneyani (prima o poi tutti si devono confrontare con lo zio Walt!), l’azione si sviluppa con intermezzi musicali che, purtroppo, rimangono troppo isolati rispetto alla narrazione e risultano alla fine fastidiosi e poco congrui alla pellicola. Certo il doppiaggio italiano ha giocato d’astuzia, calando l’asso Mario Biondi, che rende giustizia a qualche musichetta troppo infantile, per poter interessare un pubblico al di sopra dei 7 anni. 

Perché non funziona la storia e non è all’altezza delle sceneggiature de “L’era glaciale”? Semplice, perché non c’è una vera storia. Sullo schermo scorrono frame e scene tratti da altri film, attaccati insieme per arrivare al lieto fine, fin troppo scontato. Sarebbe necessario ricordare a tutti gli sceneggiatori di oltre oceano che il detto “risolverai i tuoi problemi con il cuore e non con la testa” è troppo anni ’80, per funzionare nel 2011. Certo il livello della grafica 3D e dei personaggi realizzati con la computer grafica è davvero ad altissimi livelli, ma questo lascia ancora di più l’amaro in bocca perché “Rio” è un’occasione sprecata. 

Infine bisogna fare i complimenti ai doppiatori italiani, stranamente tutti all’altezza del proprio ruolo: Fabio De Luigi, Victoria Cabello, Pino Insegno, Mario Biondi e gli outsider Emilio Carelli (direttore di Skytg24) e il mitico Josè Altafini.

venerdì 8 aprile 2011

99/100 RECENSIONI

The next review will be the number 100...
E allora ci siamo... o meglio ci sono... la prossima recensione postata su questo blog sarà la numero 100... dopo 16 mesi di lavoro gratuito (l'argent... que vulgarité!) sono arrivato a questo traguardo... AD MAIORA!!!

LO STRAVAGANTE MONDO DI GREENBERG: RECENSIONE

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Chi si aspetta la solita commedia americana à la Ben Stiller, rimarrà deluso. “Lo stravagante mondo di Greenberg” di Noah Baumbach è un film simpatico e anticonvenzionale che racconta la difficoltà di comunicare non solo nei rapporti sentimentali, ma anche nella costruzione di vere amicizie. 

Il film, mischia umorismo e sentimenti e ha come protagonisti due antieroi romantici: Florance e Roger non sono belli, non hanno successo, non sono ricchi e non hanno grandi aspettative. Sono due persone che vivono come possono, due individui che non hanno visto realizzarsi i loro sogni, ma non per questo hanno smesso di andare avanti.

Un Ben Stiller insolito, dimagrito, emaciato e svestito dei soliti panni comici, a volte demenziali, dimostrandoci la sua bravura, confrontandosi con un personaggio psicologicamente difficile da digerire. Roger Greenberg infatti è un uomo di quarant’anni uscito da poco da una clinica riabilitativa psichiatrica, insomma un sociopatico, con evidenti problemi comportamentali e sentimentali.

Uscito un anno fa negli States, “Lo stravagante mondo di Greenberg” (titolo italiano che cerca di portare la gente al cinema per mostrare un commedia che non c’è) riuscirà ad avere successo in Italia?

venerdì 1 aprile 2011

HOP: RECENSIONE

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In Italia li chiameremmo cine-colomba, negli States non hanno ancora coniato un termine ma hanno tentato di realizzare un film interamente dedicato alla Pasqua. Ne avevamo bisogno? Decisamente no! Dopo le pellicole sul Natale, con “Hop” ci addentriamo invece dentro il mondo pasquale, che per come è raccontato è praticamente la brutta copia della festività dicembrina. C’è una slitta, trainata non da renne ma da pulcini; c’è una fabbrica di regali, anzi caramelle, che non si trova al Polo Nord, ma sull’isola di Pasqua (fantasia!); ci sono gli gnomi, rappresentati dai pulcini; e c’è un Babbo Natale, che comanda tutto e tutti, che porta il titolo di Coniglietto Pasquale. 

In teoria le carte in tavola per realizzare un buon prodotto c’erano tutte, ma la sceneggiatura insapore rende la visione in una via crucis, giusto per rimanere in tema con la festività. Infatti un pubblico sopra i 5 anni dopo 10 minuti di film ha due opzioni: la catalessi o abbandonare la sala. I protagonisti del film di Tim Hill sono: da una parte C.P., il figlio del coniglietto pasquale in carica che vorrebbe diventare un batterista e Fred, un trentenne che non riesce a trovare un lavoro e un posto nella società, essendo un nullafacente. 

Ritornando un po’ all’obsoleta tecnica dei disegni animati (anche se in computer grafica sempre di cartoni si tratta) e recitazione in carne ed ossa, la narrazione si perde in un bicchier d’acqua. Il racconto che comincia con il voler approfondire il rapporto padre-figlio, raccontato per altro in maniera banale e superficiale, ad un certo punto devia su un altro binario che sembra dire ai bambini: mai alterare lo status quo. Se sei un umile operaio rimarrai tale a vita e non puoi ambire ad altro. Se portate i vostri figli al cinema alla fine spiegate che devono sempre puntare alle stelle. 

Un’altra nota di demerito che rende “Hop” ancora più fastidioso di quello che deve essere nella versione inglese? Il nostro doppiaggio. Tremendo! Si salvano i personaggi secondari, ma i veri protagonisti non si possono ascoltare.

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