lunedì 8 novembre 2010

A SERIOUS MAN: RECENSIONE

Eccovi di seguito la prima recensione che ho scritto in vita mia... A SERIOUS MAN: LA CAMPAGNA YIDDISH DEI FRATELLI COEN...


Accetta con semplicità tutto ciò che ti accade”. Si riassume con questa frase, che compare all’inizio del film, “A Serious Man”, l’ultima fatica dei fratelli Coen. Joel e Ethan ritornano alla commedia, una commedia messa in scena con il black humor, le battute costantemente irriverenti, lo scadimento dello status quo, la voglia di rivincita dei perdenti, che caratterizza il loro cinema. Un film più vicino alle pellicole degli esordi (“Il grande Lebowski” e “Fargo”), piuttosto che alle ultime opere. Basta paragonare il cast stellare di “Burn After Reading”, ai semi-sconosciuti attori di “A Serious Man” per rendersene conto. Infatti, nelle intenzioni dei due registi c’è sicuramente quella di rievocare le suggestioni della loro infanzia. Per questo il luogo dove si svolge la vicenda è il Mid West, nell’anno 1967, quando i Coen erano ancora bambini. Il loro film più intimistico, dunque, dove tutto è bypassato attraverso un occhio adulto, riportando sul grande schermo fatti e personaggi, che risalgono a più di trent’anni fa. Il protagonista Larry Gopnik, è un professore universitario, la cui vita sembra precipitare nel baratro quando la moglie s’invaghisce di un loro concreto e facoltoso amico, Sy Ableman. Per quanto il personaggio sia inventato Ethan ha commentato, dichiarando: “mentre stavano scrivendo la sceneggiatura ci siamo ispirati a persone che conoscevamo bene da piccoli. C’erano molte persone come lui nella nostra comunità”. Larry, un uomo semplice, un uomo qualunque che cerca aiuto, ma c’è qualcuno in grado di aiutarlo? Sembrerebbe proprio di no. Michael Stulbarh, attore protagonista, praticamente sconosciuto al pubblico cinematografico, è semplicemente perfetto nei panni dell’integro, onesto e dedito al lavoro professore di fisica Laurence Gopnik. I problemi con cui il protagonista si scontra nella vita però a volte sono più forti della sua morale e accettare una tangente può sembrare irrilevante di fronte alle spese legali di un divorzio, ad un figlio che si abbona a riviste senza il suo permesso o ad una figlia, che ti sfila i soldi dal portafoglio, solo perché vuole rifarsi il naso. Già dall’inizio della storia si capisce che non sì è di fronte ad una semplice commedia. L’inquietante prologo, ambientato in un piccolo villaggio nevoso nella Polonia dell’Ottocento, in cui i personaggi parlano solo Yiddish, è la giusta introduzione. Questa sorta di “cortometraggio”, infatti, ci introduce, al clima giudaico del film. Un modo originale, quasi a voler sottolineare che la religione si perpetua nei secoli sempre uguale e che non cambia mai. La religione è vissuta come un obbligo e spesso la parola di Hashem (Dio) non è compresa o la si interpreta a proprio piacimento. È la storia di uomini semplici, abituati da sempre a vivere con una etica imposta dall’alto (in questo caso dai dotti rabbini), che si fanno poche domande e che agiscono perché “è giusto agire così”, senza magari chiedersi se si fa del male a qualcun altro, giustificando sempre le proprie azioni, grazie alla parola di Dio. Come fa ad esempio Sy, il brutto sex symbol della commedia, l’uomo che con la sua calma interiore, con il suo mantra, con il suo perbenismo, con la sua rettitudine farà invaghire la moglie di Gopnik. Del resto i Coen vengono da una realtà contadina, ed anche il loro ebraismo è lontano da quello spirituale delle grandi metropoli, dai toni colti, intrisi di cultura mitteleuropea, del mondano Woody Allen. Per sfuggire alle “ingiustizie” il serio Larry Gopnik poi ha solo un mondo: i sogni. Ma può mai sognare un uomo come il professor Gopnik? Anche nell’onirico tutto ciò che inizia in maniera idilliaca, finisce in tragedia. Vi è dunque l’impossibilità del lieto fine, anche nelle singole scene, quell’happy ending avulso dal mondo dei Coen è negato. Nemmeno con uno sballo da marijuana si riesce a stare tranquilli: bisogna sempre mettere davanti a tutto il “dovere”, sia che si tratta di una festa religiosa, sia che si tratti di un familiare. Una commedia angosciosa, che racconta le disavventure di un piccolo e fin troppo serio uomo comune, magari ancora leggermente bambino, che non ha mai agito, che non ha mai fatto male a nessuno, ma che si ritrova coinvolto in eventi più grandi di lui. Il senso umoristico evita allo spettatore di annoiarsi in alcuni punti morti della pellicola. Riuscire ad intrecciare del resto Jimi Hendrix con la Cabala, i Jefferson Airplane con Bar Mitzavh di uno svogliato tredicenne non è un’operazione che possono compiere tutti. E i Coen ci riescono! Assolutamente da vedere, magari in lingua originale!


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