mercoledì 23 gennaio 2013

QUARTET: RECENSIONE

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Cecily, Reggie e Wilfred sono tre anziani cantanti d’opera che vivono a Beecham House, una casa di riposo per artisti, e vogliono organizzare il consueto concerto annuale, di raccolta fondi per la loro residenza, che si svolge in occasione del compleanno di Verdi. L’equilibrio sarà sconvolto dall’arrivo di Jean, ex moglie di Reggie, che si crede ancora una diva e si rifiuta di cantare. Ecco la storia con cui si confronta Dustin Hoffman per la sua prima volta da regista nella sua opera prima dal titolo “Quartet”.
Da anni sulla scena mondiale in qualità di attore, Dustin Hoffman convince anche nella sua prima alla regia, regalando agli spettatori una pellicola che è un’ode alla gioia di vivere, sfruttando fino in fondo ogni istante che ci è concesso su questa terra. A rendere davvero divertente la commedia ci pensando soprattutto i quattro protagonisti, pennellati alla perfezione in sceneggiatura, a cui è impossibile non affezionarsi, ognuno con un carattere e soprattutto con difetti contraddistinti che portano le situazioni ad essere ricche di humor, facendo riflettere senza scadere mai nella becera retorica.
Alla fine, Hoffman mette insieme un parterre de roi, dirigendo Maggie Smith, Albert Finney, Tom Courtenay, Billy Connolly e Pauline Collins, per un film che, pur non lasciando il segno, vale la pena di andare a vedere, giusto per distarsi e pensato più che altro per un pubblico specifico: amante della buona musica e in avanti con gli anni.
“Quartet”, che ha aperto lo scorso novembre la 30esima edizione del Torino Film Festival, arriva nelle sale italiane il 24 gennaio prossimo. 

lunedì 14 gennaio 2013

QUALCOSA NELL'ARIA: RECENSIONE


Francia, Parigi, 1970: quante sceneggiature iniziano così? Infinite! Nato nel 1955, il regista Olivier Assayas ha quindi voluto regalare al pubblico la sua visione del fervente clima politico ed artistico di quegli anni, con la pellicola Après Mai,  in italiano Qualcosa nell'aria, presentata al Festival di Venezia 2012 e in uscita nel nostro paese il 17 gennaio 2013. Il film è incentrato sulla figura di un giovane ragazzo, Gilles, aspirante pittore e regista, che cerca di trovare una strada per il suo futuro, diviso tra la lotta politica militante e il suo sogno di essere un’artista. Il ragazzo infatti non ha, come i suoi compagni, la voglia di impegnarsi totalmente nella politica e quindi si tuffa nel mondo dell’arte per cercare di realizzare i suoi sogni.

Inevitabilmente, nonostante sia un’opera di finzione, Après Mai è un film di formazione, parzialmente autobiografico, in cui il regista racconta come un ragazzo qualunque si sia ritrovato a vivere una straordinaria avventura, che lo ha poi portato a realizzare tutto ciò che desiderava, nonostante una nostalgia di fondo, segnata dal ricordo della ragazza scomparsa precocemente. La pellicola insomma ricalca quello che ormai si può considerare un film di genere, dato che il cinema è già saturo di immagini sulle lotte politiche nella Parigi a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Senza troppe pretese, Qualcosa nell'aria è come un diario ritrovato dopo tanti anni, letto solo per ricordare che cosa si è fatto nel difficile passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta. Del resto per tutto il film, c’è solo una domanda a cui il pubblico deve rispondere: seguire i sogni, che portano inevitabilmente l’individuo a vivere un’esistenza isolata, oppure cerca di condividere qualche cosa di più grande insieme ad una comunità? È poi il singolo spettatore che può rispondere a questo quesito di Assayas, decidendo se il protagonista si è o meno comportato correttamente nella sua decisione finale.

Per ciò che concerne il lato filmico in senso stretto, non si ha di fronte un’opera memorabile, è eccessivamente lunga e con dialoghi non troppo interessanti. C’è anche da aggiungere che in molte parti si ricalcano degli stereotipi e nelle situazioni e nella psicologia dei singoli personaggi. Insomma giusto per definirlo con tre semplici parole: tutto già visto!

giovedì 10 gennaio 2013

MIRACOLO A SANT'ANNA: RECENSIONE

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Spike Lee  racconta nel suo film Miracolo a Sant’Anna la storia dei soldati neri, durante la Seconda Guerra Mondiale. Sì, perché il regista americano, sempre attento al tema razziale, decide di riscattare tutti quei soldati di colore che il cinema europeo ed americano hanno sempre dimenticato, mostrando “salvatori” made in Usa soltanto biondi, alti, muscolosi e con gli occhi azzurri. Ebbene, Spike Lee con Miracolo a Sant’Anna cerca di raccontarci una nuova verità: c’erano anche americani di colore nella più sconvolgente guerra del Novecento.
Tratto dall’omonimo best seller di James McBride, Miracolo a Sant’Anna, racconta la storia di quattro soldati neri americani, appartenenti alla 92ª Divisione “Buffalo Soldiers” dell’esercito statunitense – interamente composta da militari di colore – che rimangono bloccati in un piccolo paese, al di là delle linee nemiche, separati dal resto dell’esercito, dopo che uno di loro ha rischiato la vita per trarre in salvo un bambino italiano. Asserragliati sulle montagne toscane con i tedeschi da un lato ed i superiori americani incapaci di gestire gli eventi dall’altro, i soldati riscoprono una dimenticata umanità tra gli abitanti del paese, insieme ad un gruppo di partigiani e grazie all’innocenza ed al coraggio di un bambino italiano, il cui affetto dona loro un segnale di speranza per riuscire ad andare avanti.
Il regista però non sembra molto preoccupato di spiegare fino in fondo i fatti drammatici accaduti sul suolo italiano in quei giorni. L’unica cosa che sembra importare a Spike Lee è quella di glorificare questi uomini, che, insultati in patria per il colore della loro pelle, diventano dei veri e propri eroi lontano dai confini nazionali. Insomma ciò in cui pecca il film è proprio in questo: non c’è un reale approfondimento dei personaggi. C’è solo il desiderio di utilizzare una storia per raccontare tutt’altro. Nonostante le nobili intenzioni per la causa dei neri d’America, il film non è piaciuto né al pubblico, né alla critica. Un flop al botteghino a stelle e strisce con appena 7 milioni di dollari di incasso e un flop anche nel nostro paese con il milione di euro appena sfiorato. Vedremo se con il passaggio tramite etere (stasera su Rai Tre) il film riuscirà ad interessare il pubblico italico.  Fortunatamente dopo questo “errore”, il regista si è subito ripreso con il bellissimo documentario dedicato a Michael Jackson: Bad 25, visto al Festival di Venezia 2012 e già in tv su Sky Uno.

NON È UN PAESE PER VECCHI: RECENSIONE


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Oscar, anno 2008. Miglior film, Miglior regia, Miglior attore non protagonista e Miglior sceneggiatura non originale: questo il bottino di statuette portato a casa da “Non è un paese per vecchi”, capolavoro dei fratelli Joel ed Ethan Coen ritornano a dirigere una pellicola noir. “Non è un paese per vecchi” è tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, ambientato in Texas, e racconta di una sanguinosa vicenda di un uomo che per caso s'imbatte in una serie di assassinii, in una cospicua partita di droga e in 2,4 milioni di dollari in contanti.
Pellicola cruda e spietata, dove non manca il solito black humor, con il quale i fratelli Coen giocano fin dalle loro primissime opere, “Non è un paese per vecchi” non lascia un attimo di respiro allo spettatore, che ha la possibilità di godere di un film dal ritmo serrato, che non precipita mai in momenti di stallo, grazie all’ingrediente magico di questo film: la follia (in questo caso specifico la follia di tutto il genere umano). Del resto il personaggio più celebre dell’opera è proprio quello del sanguinario e misterioso killer interpretato da Javier Bardem, che Hollywood ha consacrato, come detto, con un Aademy Awards, per lasciarlo ai posteri.
Come capeggia in alto nella locandina, “Non è un paese per vecchi” è una pietra miliare, un film che ha rilanciato al cinema (e forse anche nelle serie tv) temi come la morte, la violenza gratuita, l’amore e l’umanità. Non è un caso che, nonostante il film sia stato molte volte accusato di mostrare la barbarie umana, andando a fondo nella narrazione, si scopre un cinema profondo, morale e moralizzante.
I Coen non hanno voglia di raccontare la realtà così com’è, ma hanno desiderio di mostrare la realtà così come è percepita dai loro occhi. E la realtà è cruda, folle, spettacolare, eccessiva in tutto e forse per salvarsi (se c’è la possibilità di una salvezza spirituale) bisogna solo avere fortuna e vincere una partita a testa o croce.

SCONTRO TRA TITANI: RECENSIONE


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Vederlo al cinema in 3D o sullo schermo di casa in due dimensione, non cambia ciò che si può dire di “Scontro tra Titani”; rimane un film scadente, approssimativo e un’occasione sprecata, considerati i milioni di dollari investiti.La storia narrata è quella di Perseo, il solito semi-dio figlio di Zeus,  che cerca di salvare il mondo dal malvagio Ade, che nei primi dieci secondi di narrazione gli uccide tutta la famiglia umana che lo ha adottato. Ovviamente la pellicola di Luois Leterrier non ha nulla, ma proprio nulla, dei grandi kolossal nati tra Hollywood e Cinecittà del post-guerra. 
Epico sì, ma solo per la materia trattata, solo perché i nomi dei personaggi principali compaiono nella mitologia grego-romana. Poi per il resto è un film che con quelle storie non c’entra nulla. Inutile ricordare gli errori commessi (ad esempio chiamare le tre Parche con il nomignolino di “streghe”), anche perché errare è umano: peccato che però i dialoghi sembrano essere stati scritti da uno studente di terza elementare e nemmeno visivamente (escludendo il personaggio di Medusa) è un granché questo lavoro. La regia poi è solo concentrata nel mostrare al telespettatore delle continue inquadrature aeree, spettacolari all’inizio, noiose dopo un po’.
Eppure guardando i nomi del cast (Sam Worthington, Gemma Arterton, Liam Neeson, Ralph Fiennes, per fare qualche nome!) il risultato doveva e poteva essere decisamente migliore. In attesa del secondo capitolo, ci sarà un secondo capitolo!, inutile dire che “Scontro tra Titani” è sconsigliabile a tutti i veri appassionati di cinema. Recuperate qualche film dal passato, se proprio avete voglia di mitologia!

martedì 8 gennaio 2013

RAZZIE AWARDS 2013: GLI OSCAR DEL PEGGIO DEL CINEMA


Se il 10 gennaio scopriremo i candidati all'Oscar 2013, come da tradizione il mondo di Hollywood trema perché è tempo anche di RAZZIE AWARDS, le PERNACCHIE d'oro del cinema assegnate ai peggiori film dell'anno appena trascorso. A dominare la classifica ci pensa The Twilight Saga: Breaking Dawn parte 2 che ha ben 11 nomination ai Razzies, mentre al secondo posto si piazza Indovina perché ti odio con appena 8 candidature... C'è anche un po' di Italia ai Razzie 2013, infatti grazie (o per colpa???) al film di Muccino, Jessica Biel rischia di aggiudicarsi il titolo di peggior attrice non protagonista...
Quest'anno si presenteranno i vincitori a ritirare il premio? Del resto si sa che l'unica ad aver ritirato la sua pernacchia è Sandra Bullock, anche perché era certa di vincere quell'anno il premio Oscar, altrimenti non si sarebbe mai presentata... Ecco la lista di tutti i nominati: 


Peggior Film
The Twilight Saga: Breaking Dawn parte 2
Battleship
Una Bugia di troppo
Indovina perchè ti Odio
The Oogieloves in Big Ballon Adventure

Peggior Regista
Sean Anders - Indovina perchè ti Odio
Peter Berg - Battleship
Bill Condon - The Twilight Saga: Breaking Dawn parte 2
Tyler Perry - Medea's Witness Protection
John Putch - Atlas Shrugged part 2

Peggior Attrice
Katherine Heigl - One for the Money
Milla Jovovich - Resident Evil: Retribution
Tyler Perry - Medea's Witness Protection
Kristen Stewart - The Twilight Saga: breaking Dawn parte 2/Biancaneve e il Cacciatore
Barbra Streisand - The Guild Trip

Peggior Attore
Nicolas Cage - Ghost Rider 2/Solo per Vendetta
Eddie Murphy - Una Bugia di Troppo
Robert Pattinson - The Twilight Saga: breaking Dawn parte 2
Tyler Perry - Alex Cross/Good Deeds
Adama Sandler - Indovina perchè ti odio

Peggior Attrice non Protagonista
Jessica Biel - Quello che so sull'Amore/Total Recall
Brooklyn Decker - Battleship/Che Cosa aspettarsi quando si aspetta
Ashley Green - The Twilight Saga: breaking dawn parte 2
Jennifer Lopez - Che cosa aspettarsi quando si aspetta
Rihanna - Battleship

Peggior Attore non Protagonista
David Hasselhoff - Piranha 3DD
Taylor Lautner - The Twilight Saga: Breaking Dawn parte 2
Liam Neeson - Battleship/La Furia dei Titani
Nick Swardson - Indovina perchè ti odio
Vanilla Ice - Indovina perchè ti odio

Peggior Cast
Battleship
Oogieloves in Big Ballon Adventure
Indovina perchè ti odio
The Twilight Saga: Breaking dawn parte 2
Una Bugia di troppo

Peggior Remake/Spin-off/Sequel
Ghost Rider 2
Piranha 3DD
Alba Rossa
The Twilight Saga: breaking dawn parte 2
Medea's Witness Protection

Peggior Sceneggiatura
Atlas Shrugged part 2
Battleship
Indovina perchè ti odio
Una Bugia di troppo
The Twilight Saga: breaking dawn parte 2

Peggior Coppia
Due persone a caso di Jersy Shore - I Tre Marmittoni
MacKenzie Foy e Taylor Lautner - The Twilight Saga: breaking Dawn parte
Robert Pattinson e Kristen Stewart - The Twilight Saga: breaking Dawn parte 2
Tyler Perry e la sua Drag - Medea's Witness Protection
Adam Sandler e Andy Samberg, Leighton Meester o Susan Sarandon - Indovina perchè ti Odio

(non saprei nemmeno per chi tifare... non ho visto, ringraziando dio, nessuno di questi film!)

domenica 6 gennaio 2013

POMI D’OTTONE E MANICI DI SCOPA: RECENSIONE


Dopo Mary Poppins c’è forse solo un altro film a tecnica mista che ancora sopravvive nelle feste natalizie di tutto il mondo: Pomi d'ottone e manici di scopa diretto nel 1971 da Robert Stevenson, prodotto dalla Walt Disney Productions e interpretato da Angela Lansbury e David Tomlinson.
Il film si basa in parte sui romanzi scritti durante la Seconda Guerra Mondiale da Mary Norton, ovvero Il magico pomo d'ottone ovvero, come diventare una strega in dieci facili lezioni e Falò e manici di scopa che uniti hanno dato vita a questo originale classico per famiglie. Pomi d'ottone e manici di scopa  racconta un episodio, romanzandolo, uno spiacevole episodio accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il governo britannico aveva deciso di inviare i bambini e i ragazzi di Londra, nelle campagne, lontani dai bombardamenti tedeschi sulla capitale del regno. E proprio così comincia l’azione: tre bambini vengono inviati in campagna ed accolti nella casa di Miss Price, una aspirante strega, che ha deciso di fermare con una magia lo sbarco dei tedeschi sulle coste britanniche. Il film quindi mescola, forse come ancora non era mai successo prima al cinema, fatti realmente accaduti nella storia con fatti assolutamente inventati, che vogliono riscrivere la storia stessa (e il primo film che vi deve venire in mente in questo caso è proprio il finale di Bastardi senza Gloria di Quentin Tarantino).
Pomi d'ottone e manici di scopa, progetto pensato da Walt Disney negli anni ’60 e abbandonato solo dopo essere riuscito a strappare i diritti di Mary Poppins alla scrittrice Pamela Lyndon Travers (a proposito proprio su questo ultimo episodio sta per uscire Saving Mr. Banks!), ha anche vinto un Oscar per i Migliori Effetti Speciali ed in effetti anche dopo anni di distanza è incredibile che cosa siano riusciti a creare le geniali menti della Disney: scope e letti volanti, uomini che si trasformano in animali e quell’incontro dell’animazione con il live action che da troppi anni manca sugli schermi cinematografici di tutto il mondo.
Per quanto riguarda la versione italiana, c’è da dire che Lydia Simoneschi, voce della signora in giallo del piccolo schermo Angela Lansbury, dà al film quel calore familiare che ci si aspetta da un buon film natalizio. Da vedere ed apprezzare, soprattutto da grandi!

sabato 5 gennaio 2013

MAGIC MIKE: RECENSIONE


Quando si parla di luoghi e/o situazioni in cui il sesso la fa da padrone, cadere nella becera retorica è davvero facile. Eppure Steven Soderbergh riesce, grazie alla sua capacità di guardare al mondo in maniera sempre oggettiva, a raccontare in Magic Mike un mondo, quello dello streaptease maschile, senza cadere in inutili moralismi, che avrebbero certamente rovinato la pellicola. Tre star di Hollywood del calibro di Channing Tatum, Matthew Counaughey e Alex Pettyfer costantemente semi nudi e che ammiccano alle telecamere per quasi due ore di film: è così che il regista decide di realizzare un’opera che parla del corpo maschile, tralasciando infatti la sceneggiatura, che è solo uno spunto per mostrare allo spettatore un mondo che ancora non ha trovato molto spazio sul grande schermo. 

Di giorno, Mike è un affascinante imprenditore in cerca di successo, di notte è la stella di un locale di striptease gestito da Dallas. Mike prende sotto la sua ala protettiva Adam, soprannominato The Kid, e gli insegna l'arte dello spogliarello, del rimorchio e dei soldi facili. Ispirato alla vera storia di Channing Tatum, che a 19 anni si è davvero ritrovato ad essere uno spogliarellista, il film ruota proprio intorno all’attore, che dimostra in definitiva di non essere solo uno dei tanti bellocci di Hollywood, ma di saper recitare ed anche abbastanza bene. Soderbergh ha cucito proprio attorno a Channing Tatum tutto Magic Mike e forse senza la collaborazione tra i due questa pellicola non avrebbe avuto motivo di esistere. Il film è tutto uno spettacolo, nel senso che sono proprio gli spettacoli, i balletti, le mosse degli attori a rendere interessante Magic Mike.

Si tratta di un film dove i corpi statuari degli attori ha la meglio su tutto il resto, tanto che, una volta usciti dal cinema, si auspica che Soderbergh si dedichi sempre a queste opere “poco impegnative”, dato che fa uscire fuori il meglio di sé, rispetto ai lavori “più seri”. Certo siamo ben lontani dalla filosofica perfezione di Boogie Nights di Paul Thomas Anderson, ma c'è da apprezzare il tentativo di aver voluto mettere in mostra, pur non osando mai troppo, il corpo maschile, che spesso al cinema rimane sempre troppo coperto rispetto al corrispettivo femminile. 

venerdì 4 gennaio 2013

FINAL CUT - LADIES AND GENTLMAN: RECENSIONE


L'amore per il cinema: ecco la motivazione che ha spinto György Pálfi, regista ungherese classe 1974 a realizzare Final Cut – Ladies & Gentlemen, presentato al Festival di Cannes e arrivato in Italia grazie al 30esimo Festival del Cinema di Torino. Un film da godere. Sì, perché godere è proprio il verbo esatto per descrivere questa magia visiva, che scorre sullo schermo fotogramma dopo fotogramma (purtroppo!) per appena 85 minuti.

Final Cut – Ladies & Gentlemen è la dimostrazione che per fare cinema servono solo idee geniali e che la base di tutto non è la storia, ma il modo in cui essa viene raccontata. Ma di che cosa parla il film di György Pálfi? Si tratta di una storia d'amore: un uomo incontra per strada una donna, la segue, scopre che è una ballerina, va nel suo camerino, si innamorano, si sposano, una travagliata vita coniugale, la separazione a causa di un litigio, poi la guerra, infine il ricongiungimento. A leggere questa trama (volutamente spoilerata!) non c'è nulla di nuovo in questa pellicola. Anzi, è la solita storia d'amore raccontata più e più volte al cinema.

Quindi perché considerare Final Cut – Ladies & Gentlemen uno dei film più belli della storia del cinema? Semplicemente perché per costruire la sua narrazione il regista ungherese ha creato un montaggio di scene da circa 500 film, classici e non solo. Le scene sono assemblate insieme e mandano avanti la storia dei due amanti. Final Cut – Ladies & Gentlemen è quindi un film figlio della cultura post-moderna, che gioca con la semiotica, che incolla e ruba da opere d'arte già esistenti per creare nuova materia, nuovi argomenti.

Ci sono voluti ben tre anni di lavoro per regalare agli spettatori questa pietra preziosa. Del resto i veri amanti del cinema non potranno che apprezzare questo lavoro, dato che scatta anche, inconsciamente, il desiderio di scoprire a quale film appartiene quel singolo frame, anche magari di meno di un secondo che appare sullo schermo.

La scelta di narrare una storia semplice è sicuramente una scelta voluta, non solo per la difficoltà di raccontare così una narrazione più complessa, ma anche per ribadire che tutto ormai è già stato detto anche al cinema, e che le storie, che esse siano horror, fantasy, cartoni animati, thriller ecc., altro non sono che un riproporsi degli stessi temi all'infinito. Il titolo poi è esplicativo: Final Cut. È il tagli finale, il montaggio, ma aggiungendo quel Ladies & Gentlmen Pálfi, sembra dirci: “Signore e signori, sto svelando il trucco! Non c'è più niente da dire, il cinema è questo qua! Abbiate la pazienza di seguirci ancora, nonostante sia già stato raccontato tutto perché siamo pronti a stupirvi ancora!”

Per cinefili!

E per finire posso dire che se mai dovessi scrivere una top ten dei miei film preferiti sicuramente ci sarebbe Final Cut - Ladies and Gentlemen. Del resto la copertina di Mini Movie Review, la mia fan page su Facebook, è proprio ispirata al film di Gyorgy Palfi. 

mercoledì 2 gennaio 2013

THE MASTER: RECENSIONE


PREMESSA: Questa recensione è stata scritta direttamente dal LIDO di Venezia, quindi sono passati un paio di mesi e non ho avuto il tempo di rivedere The Master, anche se dubito che cambierò idea. 

RECENSIONE: In molti avevano puntato tutto su The Master, nuovo lavoro del regista Paul Thomas Anderson, per la vittoria finale del Leone d’Oro a questa 69esima Mostra del Cinema di Venezia. Bastava solo dare uno sguardo al cast per dirlo: Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman e Amy Adams. Eppure c’è qualcosa che non va nella pellicola, tanto da far uscire lo spettatore dalla sala con l’amaro in bocca. In molti aspettavano (inutile negarlo) The Master per rivedere il regista ritornare dietro alla macchina da presa dopo Il Petroliere.

Se però il precedente film del regista trovava la sua forza in uno straordinario inizio e in una cruenta scena finale, con questo lavoro Anderson non riesce a trovare la stessa brillantezza in sceneggiatura, tanto che il film sembra solo un compitino ben svolto. In effetti dal punto di vista della regia, del montaggio, della colonna sonora, della fotografia è tutto ineccepibile; molti problemi invece possono essere riscontrati dal punto di vista della storia, che non ha alcuna forza e non riesce nemmeno a mettere un minimo di interesse allo spettatore. Leggendo la sinossi prima di recarsi al cinema si incorre nel rischio di aspettarsi un film sulle origini di Scientology, la mitica setta a cui appartiene anche Tom Cruise.

Ebbene il personaggio interpretato da Hoffman è effettivamente omonimo del fondatore di Scientology, L. Ron Hubbard, ma la setta non è mai nominata e viene semplicemente chiamata “la causa”. Pur seguendo lo schema de Il Petroliere con due personaggi principali che si confrontano/scontrano l’un l’altro, le vicende appaiono blande, emotivamente poco accattivanti, nonostante si cerchi di parlare di grandi temi come il rifiuto dell’autorità, la voglia di trovare un posto da chiamare casa e l’analisi introspettiva.

Si tratta insomma di uno di quei film che si possono considerare un’occasione mancata. Del resto tanto si poteva dire sul mondo delle nuove religione e poco, anzi pochissimo, si dice di questo mondo in The Master. La pellicola non è eccezionale, non c’è nulla che alla fine rimane dentro, come ad esempio una grande ripresa o un dialogo particolarmente interessante, che molto spesso si possono trovare in pellicole minori di grandi registi. 

Concludo il tutto con la MINIRECENSIONE pubblicata anche sulla pagina facebook Mini Movie Review e sull'account Instagram sempre di Mini Movie Review:

LO HOBBIT: UN VIAGGIO INASPETTATO - RECENSIONE


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Chiunque abbia amato la trilogia de Il Signore degli Anelli, dopo l’ultimo film aveva un pensiero: vedere trasportato sul grande schermo anche quel romanzetto che è Lo Hobbit, prequel di una delle saghe letterarie più amate di tutti i tempi. Ci sono voluti 8 anni dall’uscita in sala del terzo capito del Signore degli Anelli per far sì che Peter Jackson potesse realizzare il sogno di girare anche le avventure del giovane Bilbo Baggins. Sì, perché Lo Hobbit, come molti sapranno, altro non è che il racconto di come Bilbo abbia aiutato i nani a riconquistare il loro territorio e di come, sempre questo hobbit, abbia ritrovato l’anello del potere.
Peter Jackson, che all’inizio voleva solo essere produttore del film, si è ritrovato nuovamente a dover immergersi nello scenario incantato della Terra di Mezzo, per far diventare immagini quello che è da molti considerato il più bel romanzo per ragazzi del secolo scorso. Romanzo per ragazzi, appunto! Chi infatti va a vedere Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato deve partire fondamentalmente da questa premessa, perché quando J.R.R. Tolkien decise di scrivere le avventure di Bilbo aveva il cuore più leggero rispetto all’epopea de Il Signore degli Anelli. Del resto anche la bibliografia tolkeniana subisce una esclation: se Lo Hobbit è un romanzo per ragazzi, il Signore degli Anelli è un romanzo per adulti, mentre il Silmarillon, essendo mitopoietica, è un “romanzo” per studiosi letterari ed appassionati di Tolkien.
A Peter Jackon è quindi toccato l’ingrato compito di girare Lo Hobbit dopo aver affascinato il mondo con Il Signore degli anelli e quindi era quasi inevitabile che, chi si attendeva la stessa epicità della trilogia, sia rimasto deluso. Eppure Peter Jackson ha compiuto davvero dei miracoli: 1) è riuscito a fare di un libriccino, altri tre film e 2) è riuscito a rendere omogenei questa nuova trilogia con quella passata. Ciò che fa Peter Jackon e la sua fortissima squadra di collaboratori è molto semplice: riportarci indietro all’inizio de La compagnia dell’Anello, quando Bilbo Baggins ci sta spiegando cosa sono gli Hobbit e da lì, senza soluzione di continuità, inizia il nuovo racconto, con rimandi più o meno espliciti a ciò che succederà nel futuro (che noi già conosciamo!).
Peter Jackson poi non si è accontentato. Nel momento in cui Guillermo Del Toro ha abbandonato il timone della regia, Jackson ha sì accettato con entusiasmo ma ha deciso di rischiare, provando e mostrando al mondo che esiste anche una nuova tecnica per girare un film a 48 fotogrammi al secondo, quindi velocizzando la classica visione cinematografica di due volte, dato che convenzionalmente un secondo equivale a 24 frame. L’inizio è spiazzante. Che cosa sto vedendo, si potrebbe pensare. L’occhio di qualsiasi spettatore non è abituato a tanta frenetica al cinema e quindi si rimane davvero intontiti e si ha desiderio di abbandonare la sala. Ma questa sensazione di disagio, tipica di quando ci si trova di fronte a qualcosa che non si è mai vista, sparisce subito, quando l’occhio si abitua e quello che resta dentro è la meraviglia, forse (e vogliamo esagerare!) la stessa meraviglia che hanno avuto i primi cine-spettatori dei fratelli Lumiere. Con i 48 fotogrammi al secondo il 3D, tanto amato in questi ultimi anni dai registi, cambia completamente veste: da scuro diventa finalmente luminoso e rende il racconto cinematografico ancora più reale, vicinissimo alla percezione dell'occhio umano. La genialità di Peter Jackson sta forse anche in questo, nel rendere reale ciò che in realtà reale non è, dato che siamo pur sempre di fronte ad un film fantasy, genere che senza la trilogia de Il Signore degli Anelli, forse oggi non avrebbe tutto questo spazio né al cinema né nelle serie televisive.
Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato è un esperimento, una novità che è perfettamente riuscito. Il racconto può subire dei bruschi rallentamenti in molte parti, ma in fin dei conti come possiamo giudicare un lavoro ancora incompleto? Già perché non ci dimentichiamo che questo non è altro che il primo capitolo di una nuova saga che si concluderà solamente nell’estate del 2014. Quello che è certo è che, come per Il Signore Degli Anelli, dopo la trilogia de Lo Hobbit, Hollywood non sarà più la stessa!


E lasciamoci così... con la canzone dei titoli di chiusura, cantata da Neil Finn dal titolo "The Song of Lonely Mountain": 



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