“Ferro 3. La casa
vuota” di Kim Ki-duk è un film
che parla d’amore e solitudine e lo fa alla maniera del regista coreano, ovvero
attraverso un modo di raccontare che diventa poesia. Poesia visiva! Dopo il
coinvolgente “Primavera, estate,
autunno, inverno e ancora primavera”, Kim Ki-duk torna nella società,
spostandosi dalle montagne incantate e silenti, al caos della metropoli
moderna.
Il protagonista del film è Tae-Suk, un giovane che abita nelle case
lasciate vuote occasionalmente dai proprietari. Il giovane non vive solamente
abusivamente in queste case, ma cerca di migliorare la vita della casa stessa,
aggiustando oggetti ad esempio e lasciando sempre tutto in ordine. Quando non
ha più niente da fare passa la sua giornata giocando a golf con la mazza numero
3, quella che è conosciuta come “Ferro 3”, la meno utilizzata dai golfisti, che
diventa quindi metafora della vita di Tae-Suk, uomo dimenticato dalla società.
La svolta è nell’incontro con una ragazza, Sun-hwa, che abbandona il marito che
la maltratta per seguire Tae-Suk nel suo girovagare di abitazione in
abitazione.
La pellicola vive di
lunghi silenzi, così come Kim Ki-duk ha abituato i suoi ammiratori più
fedeli, perché a volte le parole, soprattutto nella nostra società, sono
superflue, addirittura volgari e svuotate di significato e ciò che il regista
compie nella sua opera è far ritornare il cinema alla sua essenza originaria,
ovvero ritornare a essere racconto per immagini. Al centro di “Ferro 3. La casa
vuota” c’è (e non potrebbe essere altrimenti) il senso di emarginazione
dell’uomo moderno, che vive sospeso, alienato e, per il regista, non è importante farci sapere se ciò che
vediamo è sogno o realtà.
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