Essere obiettivi quando c’è di mezzo l’accoppiata vincente
Tolkien/Jackson è davvero difficile e per questo forse ho aspettato quasi una
settimana prima di buttare giù quattro righe di recensione su “Lo Hobbit – La desolazione di Smaug”,
secondo capitolo della trilogia tratto dal romanzetto “Lo Hobbit”. Quasi una
settimana per confermare ciò che ho percepito sin dal primo frame apparso sul
grande schermo: dei 5 film che Peter Jackson ha realizzato dal mondo di
tolkieniano questo è certamente il meno riuscito (non dico brutto perché forse
l’aggettivo non si addice molto ad una recensione). Le attese, considerando
quello che avevo letto sui siti americani, erano indubbiamente alte, dato che
grandi riviste come Variety, Empire o Hollywood Reporter avevano osannato il
nuovo film della saga. L’entusiasmo era quindi alle stelle, peccato che poi
durante le quasi tre ore di film, la gioia di rivedere elfi, nani e hobbit è
andata scemando piano piano nella lentezza e eccessiva durata del film.
Partiamo subito però dalle cose positive, giusto perché
forse sono quelle che poi ti danno la forza di attendere comunque ancora la
terza e conclusiva pellicola, su cui credo tutti quanti riponiamo le nostre
ultime speranze: Smaug è semplicemente il miglior drago mai visto finora sul
grande schermo; tecnicamente “Lo Hobbit – La desolazione di Smaug” è un film
impeccabile. STOP! Null’altro da salvare.
Dopodiché si può già passare alle critiche. Partendo
immediatamente dall’inutilità di Beorn che ne Lo Hobbit di Tolkien è certamente
uno dei personaggi più riusciti del romanzo: sprecato. Forse per non commettere
lo stesso errore fatto con Tom Bombadil
ne “Il signore degli anelli”, Peter Jackson e la sua squadra di
sceneggiatori hanno deciso di inserire comunque il personaggio del mutaforma
Beorn (tra l’altro nulla da dire sulla magnificenza di trucco e costumi), ma lo
insultano relegandolo a una particina secondaria, giusto una apparizione anche
irrilevante e abbastanza fastidiosa per chi ama follemente il mondo di Arda.
L’altro pasticciaccio brutto riguarda gli elfi. La prima
tiratina di orecchi va ai doppiatori italiani: l’elfico è poesia, basta andare
a risentire i primi trenta secondi de “Il signore degli anelli” per ricordarlo,
eppure in tutti e due i film de “Lo Hobbit” i doppiatori italiani hanno
STUPRATO la inebriante, incantevole, seducente e piacevole lingua elfica. Ma
quello che più risalta agli occhi, facendo urlare allo scandalo sono proprio il
trucco e parrucco degli elfi: sinceramente ho visto di meglio a carnevale o in
un Cosplay.
Altro capitolo andrebbe poi scritto sulla confusione della
trama, almeno per le prime due ore di film. Se non fosse per gli ultimi 40
minuti (quelli di Smaug), infatti si uscirebbe dal cinema con un’ansia e uno
smarrimento totale, dato che all’inizio per rimpolpare il piccolo romanzo di
Tolkien, Peter Jackson inserisce di tutto (troppo!), prendendosi delle licenze
poetiche e inventando di sana pianta degli episodi, che avrebbe potuto
distruggere completamente la trilogia del Signore degli Anelli, a causa delle
possibile contraddizioni, che fortunatamente non ci sono (ma è mancato davvero
poco!).
Inoltre c’è da aggiungere infine che il regista si fa
prendere troppo la mano dagli effetti speciali. L’uso del 48 hfr 3D che
riproduce quasi fedelmente la profondità dell’occhio umano, è inutile nelle
parti troppo computerizzate, che ricordano troppo da vicino l’inizio di
qualsiasi videogioco. Si passa con troppa nonchalance da una scena iper-reale
ad un’altra iper-fantastica: ancora tanto caos per il nostro povero occhio
umano.
Purtroppo da salvare c’è ben poco e Lo Hobbit non sarà mai
Il signore degli anelli (Sì, è un’ovvietà che avevo bisogno di sottolineare,
soprattutto a me stesso!!!)
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