mercoledì 30 marzo 2011

KICK-ASS: RECENSIONE

Postato anche su Film4life... Signori... questo è (finora!) il mio film preferito per l'anno 2011!!!


Di film di supereroi ne abbiamo visti a iosa. Quello che non avevamo mai visto era un film su un supereroe che non ha poteri speciali: non può volare, non lancia ragnatele, non ha super-car. Chi si nasconde dunque dietro la maschera di Kick-Ass? La risposta è più semplice di quello che potete immaginare. Un ragazzino di nome Dave Lizewski, un nerd, cresciuto tra fumetti e televisione nella periferia della città di New York, che non è uno sportivo, non è un atleta e l’unico potere che ha è di essere invisibile alle ragazze, come un normalissimo ragazzo della sua età. 

Ecco l’inizio di Kick-Ass, terzo lavoro di Matthew Vaughn nelle vesti di regista dopo “The Pusher” e “Stardust”, in attesa di vederlo alle prese con “X-Men - L'inizio”, che sarà nelle sale italiane a partire dal 3 giugno 2011. “Kick-Ass”, uscito quasi un anno fa negli States, nel quale ha incassato quasi 50 milioni di dollari, è un film politicamente scorretto, che non ha nulla a che vedere con il trailer o le sinossi ufficiali che girano da mesi per la rete e in tv. Il film è divisibile in due parti: una prima, in cui sembra di assistere ad una stupidotta, pur sempre intelligente, commediola americana e una seconda, con uno spirito pulp, cruento, ma rispettando lo stile stravagante dei primi minuti di pellicola. 

Gli aggettivi per descrivere il film di Matthew Vaughn, tratto dalla graphic novel di Mark Millar, si sprecano: è ironico, è divertitamente violento, in parte surreale, è spassoso, è grottesco e assolutamente originale. Dall’idea di base, alla svolta tarantiniana, l’eccentrica realizzazione di Vaughn piace e convince. 

La vera forza del film? I suoi personaggi: Kick-Ass, Big Daddy, Hit Girl, e tutti i veri criminali sono abilmente scritti e magistralmente interpretati da un cast di attori che meriterebbe più visibilità. Capeggiati da Nicholas Cage, che non ha bisogno di presentazioni, i giovani attori Aaron Johnson, visto in “Nowhere Boy”, Christopher Mintz-Plasse, Chloe Moretz e un sempre perfetto Mark Strong, qui nei panni del boss mafioso. 

Sconsigliato ad un pubblico troppo infantile per l’eccessiva violenza, “Kick-Ass” è la sorpresa cinematografica dell’anno: il film che non ti aspetti, anche se da noi uscito con grave ritardo. 


sabato 26 marzo 2011

THE WARD - IL REPARTO: RECENSIONE

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Il ritorno alla regia di John Carpenter, dopo nove lunghi anni di assenza, è con un thriller psicologico ambientato in “The Ward”, un reparto appunto. La protagonista è la giovane Kirsten, interpretata da Amber Heard che si sveglia ricoverata in un ospedale psichiatrico e non riesce a ricordare per quale motivo sia finita lì dentro. L’unica cosa che la protagonista sa è che in quel luogo, tra porte che scricchiolano e urla soffocate dal silenzio della notte, non è al sicuro. 

La storia è abbastanza banale. Inoltre il suo procedere in modo scontato non la rende per nulla accattivante o creativa. Una sorta di visto e rivisto, in cui inserire tutti i ricordi di psicodrammi passati per il grande schermo. 

Quello che Carpenter realizza è un compito decente, ma certamente non all’altezza dei suoi film migliori. L’atmosfera che si respira guardando il film, è di nostalgia, soprattutto di un modo di fare cinema che ormai appare obsoleto. Ammirando le immagini e le sequenze, formalmente impeccabili, realizzate dal regista, sembra di assistere ad un film di fine anni Settanta, come se qualcuno avesse riportato alla luce una pellicola dimenticata. Le situazioni narrative ricordano molto quel periodo, tanto che raramente si prova paura, in un lavoro che dovrebbe essere inquietante e horrorifico. 

Dunque l’unica buona notizia per i fan di Carpenter è il suo ritorno sulla scena cinematografica. Non altrettanto buona la mis à scene del film. Forse il buon John ha il braccio un po’ arrugginito. Speriamo ritrovi lo smalto dei giorni migliori nei suoi prossimi progetti.



venerdì 25 marzo 2011

SILVIO FOREVER: RECENSIONE

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È inevitabile! Ogni volta che si pronuncia il nome di Silvio Berlusconi, l’Italia si divide in due: una frattura che da due decenni è più evidente della secolare lotta tra il Nord e il Sud. Quindi era già scritto, prima ancora che qualcuno visionasse l’intera pellicola, che il documentario “Silvio Forever”, diretto da Roberto Faenza e scritto da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, autori de “La Casta”, scatenasse infinite polemiche. Eppure il film racconta in un modo nuovo il personaggio Silvio Berlusconi. Non era mai successo di sentire l’attuale Presidente del Consiglio raccontare la sua vita in prima persona, attraverso le sue stesse dichiarazioni, sapientemente montate, uno dietro l’altra. L’operazione certosina, portata avanti dai quattro autori, è stata quella di recuperare tutte le interviste, le immagini di repertorio, gli interventi in parlamento, i comizi, le interviste televisive del protagonista della storia politica ed economica italiana degli ultimi anni. 

Il primo pensiero, che si potrebbe avere, potrebbe essere: “Ecco l’ennesimo attacco al Premier!”. La risposta è sorprendente. Il film non è un atto di accusa, non è fazioso, non è comunista: è una autobiografia, non autorizzata, ma sempre una autobiografia, in cui un protagonista si racconta, dall’infanzia all’età matura. Quello a cui si assiste è una sorta di romanzo di formazione, tra aneddoti reali e fantasiosi, per tracciare un quadro di Silvio Berlusconi. L’idea di far raccontare parte della storia alla voce fuori campo del Presidente del Consiglio (magistralmente imitata da Neri Marcoré) è il trait d’union, per dare uniformità a tutta la vicenda. 

Del resto di Silvio Berlusconi sappiamo tutto, anzi di tutto e di più. Questo documentario è una sorta di bignami, un riassunto della storia del nostro contraddittorio Paese negli ultimi anni. In una carrellata di immagini e video abbiamo i primi anni della tv privata, i primi comizi, le prime elezioni, la celeberrima discesa in campo, fino ad arrivare alle situazioni più goliardiche: i ricordi, le barzellette, le belle donne e soprattutto la canzoni cantate ovunque, perfino ad una riunione con i capi di governo di tutta Europa. 

Tra amici e nemici, ripercorriamo le tappe principali della vita di un uomo che, nel bene o nel male, è riuscito a far diventare tutto una soap opera con il suo essere vanesio, megalomane, egocentrico, superuomo nietzschiano. Il ritratto che ne fanno i quattro autori è abbastanza super partes, anche se c’è un sottotesto di ironia che verrà colto soprattutto dai simpatizzanti di sinistra. Ma non è detto che la pellicola non possa piacere anche a chi in questi anni ha osannato l’uomo più amato, e allo stesso tempo odiato, d’Italia. Ciò che importa veramente è che non si deve trasformare “Silvio Forever” in una bandiera contro Berlusconi. L’intento dell’arte è quello di far riflettere, per sovvertire il potere c’è, a volte è bene ricordalo, il popolo, solo e soltanto il popolo. 

Alla fine del film però viene spontaneo farsi una domanda: “Ma non era meglio che il signor B. si dedicasse solamente allo showbiz?” Una domanda a cui solo i posteri potranno dare una risposta!

VOLVER: RECENSIONE

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Pedro Almodovar ritorna, dopo “La Mala Education”, a guardare al mondo femminile. “Volver” è infatti una pellicola tutta rosa, in cui le donne sono raccontate dal regista in tutte le loro sfumate: da fragili a forti, da amanti a vere mater familias. Il racconto parte dalle suggestioni di Almodovar della sua infanzia, quando poco più che bambino ammirava a La Mancha (cittadina in cui sono girate anche parecchie scene) la vita di sua madre e delle sorelle, oltre che al mondo, sempre fatto dalle signore, del cortile di casa. Il film però non racconta solo questo universo infantile, ma si snoda lungo un arco di tre generazioni. 

Raimunda (Penelope Cruz) è sposata con un operaio disoccupato e con una figlia adolescente, mentre sua sorella Sole, timida e paurosa fa la parrucchiera. Le due donne hanno perso la madre in un incendio molto tempo prima, e questo fatto le ha segnate per la vita. Una svolta drammatica poi porterà le protagoniste a confrontarsi e ad aiutarsi a vicenda. Il film è un grande affresco della solidarietà femminile, in cui spicca la figura della madre: un tema caro ad Almodovar, che ricorda, per come viene trattato in “Volver”, le pellicole di Pasolini. 

La bravura del regista spagnolo supplice alle pecche della storia, soprattutto grazie ad una Penelope Cruz particolarmente ispirata ed intesa, tanto da ricordare (vagamente) la nostra Anna Magnani, e la grande Carmen Maura, che ritorna con quest’opera a lavorare con Almodovar. Nonostante il cast eccezionale, la storia non coinvolge appieno , forse per i troppi passaggi inverosimili e fin troppo fantasiosi.
Molto meglio de “La Mala Educacion” (forse il punto più basso della filmografia del regista), “Volver” ci ricorda che Almodovar sa raccontare le storie e che vale sempre la pena rivedere le sue prime grandiose pellicole.

giovedì 24 marzo 2011

NON LASCIARMI: RECENSIONE

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Portare sul grande schermo un romanzo a volte può risultare impossibile. Il caso lampante è “Non lasciarmi” di Mark Romanek, che nonostante gli attori, Keira Knightley, Carey Mulligan, Andrew Garfield, Charlotte Rampling e Sally Hawkins, non riesce a mostrare per immagini il meraviglioso e drammatico universo creato da Kazuo Ishiguro nel suo romanzo. 

La storia è molto interessante: si tratta di tre giovani ragazzi che hanno passato buona parte della loro vita in un istituto, che sono destinati nella loro vita ad essere donatori di organi; insomma una vita segnata fin dalla nascita, che finirà nel momento in cui i ragazzi non serviranno più. 

Leggendo la sinossi, ovviamente l’impressione è di stare per assistere ad una vicenda struggente, pieno di lacrime e di un inevitabile singhiozzo finale. Se vi aspettate tutto questo rimarrete profondamente delusi. La freddezza dei personaggi, frigidi nei loro sentimenti nelle loro modo di agire, lasciano lo spettatore di sasso. Non si può provare empatia per dei ventenni o dei bambini, che sanno che cosa li aspetta nel futuro (la morte!) e che non cercano di ribellarsi, ma solo un rinvio di qualche anno perché si amano. A che serve prolungare l’attesa di una fine comunque certa? Questa domanda purtroppo non trova risposta. 

La storia per assurdo è ben narrata e la fotografia è gelida come il cuore dei protagonisti, ma considerando che l’assunto di base non ha senso (un traffico di organi legalizzato dal governo di cui tutti i cittadini sono consapevoli), non si può che rimanere perplessi, di fronte a quest’opera. Possibile che una società possa accettare che si nasca per morire in modo così barbaro? Possibile che gli stessi donatori tutti accettino con serena rassegnazione cristiana il proprio destino? 

Si parla di decine di istituti e migliaia di persone nate con l’unico fine di servire alla ricerca medica, in u modo in cui non esistono più i tumori, la sclerosi multipla e le malattie genetiche solo grazie a questi donatori di organi: già fantascienza di per sé. Considerate poi che il racconto è retroattivo (ambientato tra gli anni ’80 e ‘90) e non riuscirete davvero a trovare un senso.

mercoledì 23 marzo 2011

GRAN TORINO: RECENSIONE

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È possibile realizzare film di successo e di ottima qualità uno di seguito all’altro? Certo, se il tuo nome è Clint Eastwood con la macchina da presa puoi fare quello che vuoi! Dal 2003, anno di “Mystic River” al 2008 anno di “Gran Torino”, il regista non ha sbagliato un colpo, confermandosi uno dei grandi autori del cinema mondiale ancora in attività.

Per la sua ultima volta sul grande schermo da attore, Clint Eastwood sceglie una storia drammatica, di solitudine dai forti risvolti morali. Walt Kowalski (cognome che omaggia il brutale protagonista di “Un tram che si chiama desiderio”) è un reduce della guerra di Corea, di carattere burbero e spavaldo, con un’unica passione: la sua Ford Torino, modello classico del 1972, da lui stesso realizzata in catena di montaggio, custodita gelosamente nel suo garage. Walt è un patriota convinto, ma il suo quartiere è diventato il principale centro suburbano della comunità Hmong, gruppo etnico asiatico della Cina del Sud. Il caso lo porterà a far amicizia con il giovane Thao, importunato dalla banda criminale del cugino. Le convinzioni di Walt sul suo razzismo cominciano quindi a sgretolarsi piano piano fino alla memorabile risoluzione finale. 

Il film ha la capacità di mettere in risalto i lati oscuri dell’anima di un uomo, che trova la sua salvezza negli affetti veri e nell’amore, questa volta ritrovati, non nella famiglia di sangue, ma nell'amicizia con uomini e donne appartenenti ad una cultura estranea all'Occidente. Attorno a Walt girano ed agiscono tutti i personaggi, dal giovane prete, al barbiere, ai suoi stessi figli, in un vortice di colpa/perdono che avvolge tutto, come già successo in "Mystic River" o in "Changeling". Nel protagonista sono impersonificate tutte le contraddizioni della grande America: sempre dalla parte giusta (anche in guerra), bigotta, religiosa, aperta a tutte le razze, ma solo se non sono i vicini di casa, creatrice e miracolosa. Stranamente la vicenda è raccontata in modo lineare, ma sempre con la consapevolezza di chi il cinema sa farlo bene, benissimo. 

“Gran Torino” rimarrà nella storia del cinema come una delle pellicole più belle di Clint Eastwood. Da non perdere!

SUCKER PUNCH: RECENSIONE

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Zack Snyder ritorna ai suoi primi amori: il fumetto ed i videogame. Dopo essersi dedicato ai gufi de “Il regno di Ga’hoole – La leggenda dei Guardiani” tanto per sperimentare il 3D, l’eccentrico regista si tuffa in una storia tutta al femminile ritornando alle atmosfere della graphic novel. Le protagoniste sono cinque splendide “signorine” (si poteva scegliere un termine un po’ più moderno nella traduzione italiana? Sì, si poteva!), interpretate dalle meravigliose Emily Browning, Abbie Cornish, Jena Malone, Vanessa Hudgens, Jamie Chung alle prese con una storia (simil)psicologica, che si dirama su più livelli: dagli anni ’50 e ai teatri dell’epoca, fino ad arrivare ad un fantascientifico futuro, fatto di treni superveloci, bombe supersofisticate e gli immancabili androidi.
Baby Doll è ricoverata in un istituto di igiene mentale dal patrigno che intende farla lobotomizzare. Mentre si trova rinchiusa, trova un’unica arma di difesa: la ragione. Per questo si rifugia con l'immaginazione in una realtà alternativa, per pianificare una fuga.
Tra minigonne, tacchi e mitra, la vicenda, accompagnata da una superba colonna sonora, lo spettatore è introdotto nel solito immaginario di Snyder, del resto basta guardare solo i primi frame per capire che dietro la macchina da presa c’è l’autore di “300”. I primi dieci minuti della pellicola sono un autentico capolavoro di regia. Una prova di grande sensibilità, in cui tutto è raccontato attraverso immagini e musica; uno dei pochi momenti in cui forse Snyder punta alla sceneggiatura, più che sulla spettacolarità delle scene. Del resto sono proprio le scene spettacolari ad averlo reso celebre nel mondo dorato del cinema e anche “Sucker Punch” ne è saturo. Certo qui gli epici spartani, sono addolciti dal trucco, dalle ciglia finte e dagli ammiccanti corpi.
Certo le pecche a livello della narrazione sono evidenti. Ma a Snyder nessuno,  con un po’ di senno, può chiedere di raccontare una storia con personaggi dalla psicologia complessa. Ancora il regista è fermo alla lezione uno dell’allenamento che recita: “hai dentro di te tutto il necessario per vincere!” Credete sia retorico? Allora, abbandonate la sala tre minuti prima della fine.

mercoledì 9 marzo 2011

GNOMEO E GIULIETTA: RECENSIONE

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Uno dei classici della storia della letteratura mondiale, “Romeo e Giulietta”, ritorna per l’ennesima volta al cinema, questa volta in computer grafica e con l’ormai abusata terza dimensione. Questa volta la storia di “Gnomeo e Giulietta”, diretta dal regista Kelly Asbury, già cimentatosi nel CG con “Shrek 2”, è ambientata a Verona Drive, dove due famiglie di gnomi da giardino i Montague (dal colore blu) e i Capulet (dal colore rosso) si sfidano in una faida familiare. Il film ovviamente ricalca in toto la tragedia shakespeariana, affrontando il tutto per un pubblico principalmente per bambini. Quando l’amore tra Gnomeo e Giulietta sboccia, i due dovranno cercare di superare la staccionata che separa i loro due mondi, per cercare di trionfare sull’odio. 

Il prodotto finale è una pellicola di qualità, soprattutto dal punto di vista della grafica. Sono lontani i tempi in cui era solo la Pixar a donare fluidità nei movimenti ai suoi personaggi. Anche questo lavoro, tutto made in England, racconta di un mondo dell’animazione ormai vero dominatore dei botteghini cinematografici. Sì, perché queste pellicole, come anche Rango o Rio, di prossima uscita, divertono i più piccoli, ma strizzano l’occhio anche agli adolescenti, riuscendo a portare in sala un numero elevato di spettatori. A differenza poi delle nostre Winx, anche la sceneggiatura è ad un livello molto elevato con divertenti le citazioni di film famosi e le gag comiche, e gioca, non solo con i protagonisti, ma con tutti i personaggi secondari, ben strutturati e che creano divertimento solo per l’aspetto fisico. Ovviamente l’idea di immaginare una miriade di personaggi è un modo geniale per invadere, con garbo e in modo giustificato, i negozi di giocattoli, con un merchandising, che potrebbe addirittura essere più redditizio del film stesso. 

Altra piacevole nota, in tutti i sensi, è la colonna sonora. Elton John fa da sottofondo alle scene del film con le sue canzoni più celebri: Crocodile Rock, Saturday Night’s Alright for Fighting, Don’t Go Breaking My Heart, Love Builds A Garden, Your Song, Rocket Man, Tiny Dancer, Bennie and The Jets, Sorry Seems To Be the Hardest Word e addirittura duettando con la star del mondo, Lady Gaga, in Hello Hello. Il film poi ha il pregio di non sfociare mai nel musical, cosa da non sottovalutare dato che comunque a fine pellicola comprare il marchio Walt Disney 

Ma arriviamo alle “note” stonate: il doppiaggio italiano. Sì, perché ci si chiede a chi sia venuta in mente di far parlare i simpatici gnometti in tutti i dialetti della penisola, dividendo i due giardini in Nord (i blu di Gnomeo) e in Sud (i rossi di Giulietta). Un’idea fastidiosa, anche perché sembra che il nostro cinema debba per forza rimarcare questa differenza per poter far ridere. Il doppiaggio disturba e rovina molti momenti, diventando addirittura incomprensibile per i bambini (non stupitevi se vi chiederanno spesso: “Che ha detto???”). Poteva essere simpatica l’idea di caratterizzare solo qualche piccolo gnomo con un dialetto - funziona ad esempio la parlata romanesca del fenicottero “Piuma Rosa”, doppiata da Francesco Pannolino - ma sentire Giulietta dire “baciamo le mani” o Gnomeo dire “uè bauscia” non è veramente accettabile. Qualcuno potrebbe dire che magari anche in originale hanno caratterizzato i personaggi con accenti di un diverso inglese. Ma vi immaginate gente del calibro di James McAvoy, Emily Blunt, Michael Caine, Maggy Smith, Ozzi Osbourne, Jason Statham a farlo? Beh, risposta semplice: NO!

martedì 8 marzo 2011

BURLESQUE: RECENSIONE

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Avete presente quelle meravigliose spada infuocate che ogni tanto si vedono nei film o nei videogiochi fantasy? Ecco, se avete ben presente quell’aggeggio potete capire meglio che cosa avrei voluto fare dopo essermi recato al cinema a vedere “Burlesque” di Steven Antin con due signore della musica popolare come l’immortale Cher e l’“eternaseconda” Christina Aguilera. Sì, perché a metà film avrei voluto lasciare il mio posto per disegnare una M gigante sullo schermo e vendicare così tutto il mondo del cinema. 

E dopo lo sfogo, possiamo introdurci alle atmosfere di un film, assolutamente inutile che non ha ragione di esistere. “Burlesque”, ovvero come sfruttare un fenomeno di costume di nuovo in voga (il genere nasce nel XVIII secolo) per potare la gente al cinema e racimolare qualche soldo. “Burlesque”, ovvero come utilizzare al peggio il genere del musical, senza aggiungere nulla di nuovo, solo scopiazzando e per giunta malamente grandi capolavori (“Moulin Rouge”, “Chicago”, “Cabaret”, “Il mago di Oz”: dimenticateli!). 

Non stiamo qui a criticare le doti canore di Cher e della Aguilera, regine della musica, amate dai fan, ma forse davvero poco adatte a finire in un film; della serie: ognuno fa il suo mestiere: chi canta fa il cantante e basta, chi recita fa l’attore e basta! Purtroppo molte volte pur di sfruttare uno scintillante nome su una locandina, si è disposti anche a mettere da parte la qualità. L’importante è che la gente vada al cinema. “Burlesque” purtroppo non vuole essere altro di quello che è: una pellicola poco interessante e che finirà presto nel dimenticatoio. 

Non c’è nulla di particolare o ingegnoso che farà ricordare il film negli Annales cinematografici, il che è anche una fortuna per gli attori che ci hanno lavorato. Del resto quello che mi sono chiesto uscendo dalla sala è stato: “Ma Stanley Tucci, la sceneggiatura, prima di firmare, l’ha letta? E se l’ha fatto, perché ha accettato, solo per il vil danaro??”


p.s. se volete leggere una recensione di un vero film sul burlesque vi consiglio di leggere e poi andare a vedere "TOURNEE" di Mathieu Amalric... 

domenica 6 marzo 2011

IL GIOIELLINO: RECENSIONE

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Andrea Molaioli, dopo il successo de “La ragazza del lago”, torna al cinema con il suo secondo lungometraggi con un’altra storia tutta italiana, spostando l’attenzione dalle rive della periferia al cuore del potere. Sotto l’occhio critico del regista finiscono i discutibili meccanismi della finanza, mettendo in luce i fallimenti delle grandi aziende italiane. Ovviamente il riferimento al crack Parmalat dei primi anni del Millennio è inevitabile dato che si parla di latte, c’è di mezzo una squadra di calcio, ci sono conti sapientemente falsati e ci sono soprattutto i “normali” risparmiatori, vittime ignari di un meccanismo malato a monte. 

La storia che Molatoli racconta è quella della LEDA, azienda affermata a livello nazionale ed internazionale, con tanto di quotazioni in borsa ed aperta verso nuovi mercati, dell'imprenditore Rastelli (Remo Girone). Il compagno di avventura di questo personaggio è il ligio Ernesto Botta (Toni Servillo), ragioniere spigoloso ed introverso, totalmente ligio alle politiche (corrette o scorrette che siano) della sua amata azienda, il loro “gioiellino”. Il problema è che presto i meccanismi si inceppano e a nulla servono gli sforzi di Botta per portare di nuovo a galla la LEDA: : falsificare i bilanci, gonfiare le vendite, chiedere appoggio a banche e politici. 

Insomma come si può ben capire nella pellicola c’è tutto, almeno dal punto di vista della storia. Gli intrighi del palazzo si fondono con la crisi economica, anche se l’intento del regista non è quello di un reportage sulla disastrosa conduzione delle multinazionali italiane da parte dell’elite, ma solo quella di raccontare una storia. 

Certo è che si poteva fare di più: interessante l’idea, del resto parlare contro il potere ormai in Italia è sempre un atto sovversivo; bravissimi gli attori, troviamo il meglio del cinema italiano; forse il lavoro pecca di coraggio: più cattiveria contro questi signori della finanza e della politica non sarebbe stato un male, anzi...

venerdì 4 marzo 2011

DUBBI NON CINEMATOGRAFICI...

Visto che Google mi ha bannato dal suo programma adsense con la spiegazione "Famo un po' come cazzo ce pare!" qualcuno di voi conosce un modo per accumulare tre centesimi al giorno con un anti-google??? :D... Grazie a tutti per l'aiuto... MALEDETTI i monopoli!!!

PROFUMO – STORIA DI UN ASSASSINO: RECENSIONE

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Profumo – Storia di un assassino” è uno di quei film in cui il giudizio di pubblico e critica non è unanime. Se chiedete a qualcuno che si reca al cinema una tantum vi dirà che questo film è un capolavoro, se chiedete quello che pensa ad un critico o ad un cinefilo non può che essere scettico sul lavoro del regista Tom Tykwer. Partiamo dalla storia. Tratta dall’omonimo romanzo di Patrick Süskind, la vicenda narra la vita di Jean Baptiste Grenouille, un profumiere francese di metà diciottesimo secolo. Nato nel quartiere più puzzolente di Parigi, il giovane, crescendo, decide, grazie al suo dono di percepire tutti gli odori, di creare il profumo perfetto, il profumo che arrivi a parlare all’anima degli uomini. Per realizzare questo suo sogno, non si crea il minimo scrupolo, nemmeno quello di macchiarsi del crimine più terribile: l’omicidio.

Ora, nel libro, tutto passa attraverso le sensazioni olfattive del protagonista e tutti i suoi stati d’animo e le sue azioni sono ben spiegate. Nel film purtroppo le lunghe descrizioni interiori sono raccontate da una (discutibile) voce off, appartenente ad un cinema d’altri tempi, demodè. 

Tutto procede bene, anche se sembra assurdo che quest’uomo non provi alcun tipo di rimorso per tutto ciò che sta commettendo. Arrivando verso la risoluzione finale, il tono della narrazione cambia: sparisce il mondo dell’olfatto e tutto si concentra sulla parte da serial killer, con gli abitanti del paese preoccupati a salvare le loro donzelle. 

L’ultimo quarto d’ora è poi un’eresia per gli amanti del cinema. Si passa da un videoclip musicale simil-porno, con un’orgia cittadina che dovrebbe essere giustificata, ma che fa solo sorridere dato che tutti sembrano modelli e modelle di una pubblicità di Dolce & Gabbana, per finire proprio ad un’assurda conclusione, che davvero non ha alcun senso logico. Va bene che il “delirio” ha reso immortali grandi registi, ma in questo caso la situazione è ben diversa e più vicina al comico, involontario, ma pur sempre comico, che al capolavoro. 

Dunque partendo dalla premessa che è difficile, se non impossibile, portare al cinema un romanzo introspettivo e, in questo caso, con l’aggravante delle sensazioni, è meglio sempre lasciare certe storie solo al mondo della letteratura.

mercoledì 2 marzo 2011

RAY: RECENSIONE

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Come nasce una leggenda? Come si diventa un mito? Come si cambia lo status quo? Sono queste le domande a cui risponde il regista Taylor Hackford con il film “Ray”, biopic dedicato alla stella del pianoforte Ray Charles, il primo a mescolare insieme generi musicali diversi: rhythm and blues, musica country, gospel, rock’n’roll…

Certo come ogni nuovo esperimento prima di affermarsi c’è voluto del tempo e ripercorrendo le tappe della vita del musicista, scopriamo tutto il passato dell’uomo Ray: il suo passato turbolento, la droga, i rapporti con la famiglia, le donne che lo accompagnarono nella sua carriera, la difficoltà ad imporre la sua musica per quelle odiose leggi razziali.

Ovviamente c’è il racconto della malattia: un bambino sfortunato che smette di vedere i colori, a causa di un glaucoma all’età di cinque, acquisendo però la capacità di trasformare i suoi sentimenti, i suoi pensieri, in musica. Soffermandosi sui risvolti psicologici della vita di Ray Charles, con una fotografia che riscalda l’anima, il film è un omaggio ad un uomo che ha vinto sulla sfortuna e la vita. Eccesso di encomio e patetismo? Forse sì, ma la musica fa perdonare anche questo! 

Attraverso delle vigorose mani che scorrono, contro tutto e tutti, su un pianoforte, tra tasti bianchi e tasti neri, questa pellicola entra e rimane dentro lo spettatore, aiutata dalle meravigliose note dei successi intramontabili del bluesman: “Georgia on My Mind”, “I Can't Stop Loving You”, “Unchain My Heart” e “Hit the Road Jack”…

Da ammirare la straordinaria interpretazione di Jamie Foxx, particolarmente ispirato nelle vesti di Ray Charles, tanto da vincere nel 2005 sia il Golden Globe sia l’Oscar come Miglior Attore Protagonista.

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